Francesco da Firenze: «Mi piace una Chiesa italiana inquieta»
A Santa Maria del Fiore il discorso nella seconda giornata del Convegno ecclesiale nazionale, davanti a vescovi e delegati di 226 diocesi
A Santa Maria del Fiore il discorso nella seconda giornata del Convegno ecclesiale nazionale, davanti a vescovi e delegati di 226 diocesi. «Gesù è il nostro umanesimo»
“In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. Questo il tema del Convegno ecclesiale nazionale in corso a Firenze fino a venerdì 13 novembre, a cui partecipano 2.200 delegati provenienti da 226 diocesi. Davanti a loro questa mattina, martedì 10 novembre, nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, Francesco ha pronunciato il suo secondo discorso, nel suo decimo viaggio pastorale in Italia. E proprio dall’umanesimo cristiano e dall’esigenza di «abbassarsi» per vedere il volto di Gesù, «simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati», di cui Dio ha assunto il volto, è partito per delineare il profilo di una Chiesa italiana umile, inquieta e vicina alla gente.
Umile, anzitutto. «L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria dignità, la propria influenza – ha ribadito con forza il Papa – non deve far parte dei nostri sentimenti». Quella che è da perseguire, al contrario, è «la gloria di Dio» che «non coincide con la nostra». Gloria che «sfolgora nell’umiltà della grotta di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo» e che «ci sorprende sempre». Il modello, dunque, è quello dei «sentimenti di Cristo Gesù», nei quali l’umanesimo cristiano trova un volto concreto: «Non astratte sensazioni provvisorie dell’animo» ma «la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni».
Ancora, un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano, ha continuato Francesco, è «il disinteresse». Il sentimento, cioè, di chi sa che «l’umanità del cristiano è sempre in uscita, non è narcisistica e autoreferenziale». Di qui l’invito a evitare «di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli». Infine le beatitudini indicate da Gesù nel discorso della Montagna. «Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito – le parole di Francesco -. Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà». Per questo non bisogna essere ossessionati dal potere: «Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso – ha ammonito il pontefice -. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste».
Umiltà, disinteresse, beatitudine. «Una Chiesa che presenta questi tre tratti – ha spiegato il Papa – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze». E ancora: «Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti».
Riflettendo sulla dottrina cristiana che «è viva, sa inquietare, animare», Francesco ha messo in guardia i delegati presenti a Firenze da due tentazioni fondamentali. La prima è quella «pelagiana», che «spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene». Il pelagianesimo, ha avvertito il pontefice, «ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività». Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa invece, per il Papa, «è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative».
La seconda tentazione da rifuggire è quella dello gnosticismo, che «porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà – ha continuato Francesco – significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo». E ha esortato la Chiesa riunita a Firenza a lasciarsi «portare dal soffio dello Spirito, potente e per questo, a volte, inquietante». La Chiesa italiana, l’invito di Francesco, «assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno”».
Ai vescovi l’invito a essere «pastori, solo questo. Sia questa la vostra gioia. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi», ha assicurato il Papa continuando nel suo discorso, uno dei più lunghi dall’inizio del pontificato. «Che niente e nessuno – ha continuato rivolto ai presuli – vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine,ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori».
L’esempio indicato è quello dei grandi santi italiani, da Francesco a Filippo Neri, ma anche di personaggi come il don Camillo di Guareschi. «Mi colpisce – ha evidenziato Francesco – come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente». Vicinanza alla gente e preghiera «sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte». Quindi, rispondendo alla domanda “Che cosa dobbiamo fare?”, “Che cosa ci sta chiedendo il Papa”, il pontefice ha affermato: «Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce Homo che abbiamo sulle nostre teste», ha detto riferito alla rappresentazione del Giudizio universale.
Da ultimo, ancora una raccomandazione: «La capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comunem è cercare il bene comune per tutti». Una Chiesa aliena dal potere non è una Chiesa che sta zitta: «La Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini». Poi, in forma di preghiera, l’essenziale: «Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza».
10 novembre 2015