Malati di mancanza di ascolto, fame di uno sguardo vero
Siamo dominati da una precarietà che significa solitudine, l’assenza di certezza di una mano accanto, di una presenza cui potersi appoggiare
Un panino, un vestito, un piatto caldo, un ricovero per una notte. Possiamo dirlo serenamente: non mancano a nessuno o quasi. Tante sono le mani che se ne occupano: associazioni, volontari che suppliscono all’indigenza materiale. È un’emergenza ed è giusto che sia vista e trattata come tale ma, certe volte, non la primaria. C’è un oltre, più sottile, più invisibile, sotterraneo e, in quanto tale, difficile da percepire. Una sorta di malattia dei tempi moderni che richiede cura e attenzione ma, prima ancora, di venire alla luce. Una fame che chiede legittimazione perché dare nome a un disagio è renderlo esistente e, se tale, oggetto di considerazione.
Siamo, e sottolineo questo pronome personale, malati di mancanza di ascolto. Quello vero, profondo, quello che esprime interessamento alla vita dell’altro, alle sue vicende, al suo vissuto. Quello che ci porta a dire “tu sei affar mio”, io ti ho a cuore e ti porto nel cuore. Nessuno, neanche all’interno delle famiglie, è esente da questa mancanza di accudimento cui cerca spesso, inopinatamente e senza riuscirvi, di supplire col ricorso a un virtuale che nasconde ancora di più, che crea false immagini, maschere di se stessi nel tentativo di connettere, di far sentire meno soli. La «Chiesa da campo» di Papa Francesco è chiamata sempre di più a varcare le soglie di questa solitudine infida perché vissuta in modo nascosto; è spinta a scendere ai bordi di quelle periferie esistenziali invisibili che abitano i centri affollati ancor di più che i piccoli paesi dove sopravvive una certa solidarietà. Il grido dei non ascoltati è flebile, occorre sintonizzarsi profondamente per udirlo e dare voce diventa non un compito ma un servizio e una missione.
La vera povertà: non avere qualcuno che si ferma accanto, che ricalchi quella famosa frase «Fissatolo lo amò» che il Cristo viandante rivolge al giovane ricco comprendendo il suo vero vuoto interiore. Fame di uno sguardo che sappia intercettare il bisogno che qualcuno perda il suo tempo per noi, per sporcarsi le mani con la nostra storia; che si carichi sulle spalle un peso da soli insostenibile e decida di farlo proprio per un tratto, anche breve, di cammino. Il dono della condivisione che renda il percorso meno pesante e meno solitario.
Il dono dello “spezzare” la propria vita come pane buono a una mensa eucaristica fatta di quotidianità e non solo dell’appuntamento domenicale; rendersi strada, via, breccia quando non si riesce a scorgere la luce. Sentir risuonare la voce di don Milani che, sulla sua scuola di Barbiana, scuola degli ultimi, ha avuto il coraggio di scrivere «I care»: io ho cura di te, mi prendo cura di te.
Ma non basta ancora. Non si tratta di un ascolto distratto, temporaneo, superficiale. Non ci si improvvisa “ascoltatori” come fosse un servizio di volontariato. Si è ascolto, ci si fa ascolto, si diventa strumenti di ascolto. Il come è tutto da scoprire, non ci sono formule, occorre diventare creativi come spesso, e sempre di più, ci ricorda il Papa. Occorre tracciare nuovi percorsi che ci portino nel mezzo, ci impregnino dell’altro come quel pastore che deve odorare delle sue pecore perché spende se stesso con loro, perché si sporca della loro storia e non può concludere la giornata se non ha messo tutte al sicuro. Siamo dominati da una precarietà che significa solitudine, mancanza di certezza di una mano accanto, di una presenza cui potersi appoggiare. I grandi malati della società dell’opulenza in cui sembra non mancare nulla ma che ci ha privato del fondamentale. Quale ascolto? L’ascolto incondizionato, che non ponga distinguo, non distribuisca le persone in categorie, non etichetti, non divida in buoni e cattivi, non giudichi e pregiudichi. Le cose si complicano.
Non basta passare del tempo nella vicinanza ma deve essere un tempo maturo, responsabile, coraggioso, un lasciare se stessi e le proprie occupazioni, non tanto materiali quanto interiori, per prendersi cura. È complesso non ergersi a giudice supponendo di avere la verità in tasca; non è semplice far posto, creare spazio in sé per accogliere il tutto dell’altro. È scomodo perché ci tocca nel profondo, perché la sua povertà, il suo dolore e la sua sofferenza richiamano la nostra precarietà, i nostri vuoti, la nostra periferia esistenziale.
Giorni fa, alla mensa della Caritas di via Marsala a Roma, era un continuo peregrinare di volti e di fame, ma non era solo la mancanza materiale di un piatto da riempire, era la solitudine, il mangiare a un tavolo senza alzare il viso perché non si ha nessuno con sé; è la storia di un’ospite che, sembra assurdo, lascia il cibo nel piatto, per parlare a lungo con un operatore che senza fretta ascolta discorsi a volte anche sconclusionati ma autentici come lo è la persona che li porta. La mensa, come altri posti, è sì emergenza materiale ma anche bisogno di un volontario che mentre ti porge il piatto fumante ti guarda negli occhi e ti dice benvenuto, buonasera, buona cena; di uno sguardo che si fissa nell’altro e non lo fa sentire un numero ma persona.
Siamo malati di indifferenza che spesso mettiamo a tacere con una piccola elemosina, magari non per cattiveria, ma perché all’ascolto ci si educa e nessuno ce lo può insegnare. Perché occorre tornare sui banchi del cuore, alla sequela di un Cristo che ha speso ore nella sua chiesa della strada polverosa, fuori dal tempio cui erano ammessi solo i “regolari”, per incontrare chi mai avrebbe potuto avvicinarsi perché impuro dentro e fuori.
La relazione d’aiuto, anche all’interno delle relazioni familiari, diventa relazione d’ascolto, riparatrice di tante ferite e fragilità perché è mettersi da parte per far spazio, è prendere su di sé la confusione e il disorientamento dell’altro per portare luce, è recupero di un sé in cui sentirsi contemplati, amati. Strappati all’invisibilità. È soffrire con, gioire con, comprendere l’altro nel senso non di capirlo intellettualmente, ma di prendere la sua vita con sé, sulle proprie spalle, farsi permeare dal suo vissuto. È l’ascolto di chi crede in noi qualsiasi cosa possiamo aver messo in campo, che confermi la nostra esistenza quando noi stessi la squalifichiamo appesantiti da tante sofferenze, che dia dignità a una vita che spesso ha perso il suo valore e giace ai confini di un’umanità ferita. È l’ascolto del Gesù abbandonato che ognuno porta dentro di sé perché l’invisibile ritorni a splendere. Non basta la contemplazione, occorre passare all’azione. (Alessandra Bialetti, pedagogista sociale e consulente della coppia e della famiglia)
4 ottobre 2019