Povertà aumentata, in Italia, tra quanti possiedono un lavoro
Audizione del presidente Istat Blangiardo alla Camera. Nel 2020 «crollo mai registrato dal dopoguerra». -735mila occupati rispetto al pre pandemia
Il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo l’ha affermato senza mezzi termini ieri, 28 luglio, nel corso dell’audizione alla XI Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera dei deputati: «Nel 2020, è aumentata la povertà fra coloro che posseggono un lavoro». Lo confermano i dati: a livello nazionale, rispetto al 2019, «cresce l’incidenza per le famiglie con persona di riferimento occupata (dal 5,5 al 7,3%), sia dipendente che indipendente; per le famiglie con persona di riferimento inquadrata nei livelli più bassi, operai o assimilati, l’incidenza sale dal 10,2 al 13,2%; fra gli indipendenti di altra tipologia, ossia lavoratori in proprio, dal 5,2 al 7,6%». Stabile invece, sempre rispetto al 2019, il valore dell’incidenza «per le famiglie con persona di riferimento ritirata dal lavoro (4,4%) e fra coloro che sono in cerca di occupazione (19,7%)».
Riguardo all’incidenza della povertà assoluta in Italia, Blangiardo ha parlato di un’incidenza «in forte crescita» nel 2020, anche a motivo delle nuove disuguaglianze prodotte dalla pandemia di coronavirus nel mondo del lavoro, con «un incremento a livello sia familiare sia individuale». In particolare, «si contano oltre 2 milioni di famiglie in povertà, con un’incidenza passata dal 6,4 del 2019 al 7,7%, e oltre 5,6 milioni di individui, in crescita dal 7,7 al 9,4%». Sull’incidenza della povertà – è l’analisi del presidente Istat – hanno inciso anche «le misure messe in campo a sostegno dei cittadini, che hanno consentito alle famiglie in difficoltà economica – sia quelle scivolate sotto la soglia di povertà nel 2020 sia quelle che erano già povere – di mantenere una spesa per consumi non molto distante dalla soglia di povertà».
Più alta l’incidenza di famiglie in povertà assoluta nel Mezzogiorno – con il 9,9% al Sud e l’8,4% nelle isole – ma è al Nord che si osserva la crescita più marcata, sia per le famiglie (dal 5,8 del 2019 al 7,6%) sia per gli individui (dal 6,8 al 9,3%). «Nel Nord-ovest e nel Nord-est l’incidenza familiare di povertà assoluta passa, rispettivamente, dal 5,8 al 7,9% e dal 6,0 al 7,1%», ha riferito Blangiardo, spiegando che, rispetto al 2019, «la povertà cresce fra gli individui in tutte le classi di età, fatta eccezione per gli over 65, dove il fenomeno, peraltro, riguarda quote di popolazione inferiori alla media nazionale». Fra i minori il dato relativo alla povertà assoluta passa dall’11,4% del 2019 al 13,5%, con un aumento maggiore al Nord (da 10,7 a 14,4%) e al Centro (da 7,2 a 9,5%). La povertà assoluta è, inoltre, cresciuta di più per le famiglie con un maggior numero di componenti (dal 16,1 al 20,5%), dove era già più elevata, e nelle famiglie monogenitore (dall’8,9 all’11,7%).
Significativo l’impatto delle nuove disuguaglianze prodotte dalla pandemia nel mondo del lavoro. Basti pensare che nel Nord, ha evidenziato ancora il presidente Istat, «il peggioramento delle famiglie con persona di riferimento dipendente ha coinvolto sia le famiglie con persona di riferimento inquadrata come dipendente nei livelli più alti (dirigenti e impiegati), dove l’incidenza sale dall’1,8% del 2019 al 3% del 2020, sia soprattutto nei livelli più bassi (come operai o assimilati), in cui l’incidenza aumenta dal 10,0% al 14,4%, interessando oltre 345 mila famiglie. Sempre nel Nord, le famiglie con persona di riferimento indipendente mostrano forti segnali di disagio». Infine, per le famiglie con almeno uno straniero, l’incidenza di povertà assoluta è stata pari al 25,3% (+3,3 punti rispetto al 2019), mentre per le famiglie composte esclusivamente da stranieri si è attestata al 26,7% (+2,3 punti); risulta, invece, del 6,0% per le famiglie di soli italiani (+1,1).
Inevitabile l’impatto sui consumi “finali”, che «hanno subito un crollo di dimensioni mai registrate dal dopoguerra, con una diminuzione del 10,9% che ne ha portato il valore a un livello di poco superiore a quello del 2009 e a quello del 1997, se considerato al netto dell’effetto della variazione dei prezzi». Dall’indagine sulle Spese per consumi, la stima della spesa media mensile familiare per il 2020 è di 2.328 euro mensili in valori correnti, in calo del 9,0% rispetto al 2019. Si tratta, ha spiegato Blangiardo, di «un episodio unico, in cui l’andamento dei consumi, dal punto di vista temporale, territoriale e di categoria merceologica, è stato quasi completamente determinato dall’evoluzione della crisi sanitaria e dai connessi comportamenti prudenziali della popolazione». Proprio per questo, le variazioni risultano «molto differenziate tra i singoli capitoli di spesa, coerentemente con il tipo di restrizioni imposte e con il diverso grado di comprimibilità delle spese stesse». Sostanzialmente invariate, ad esempio, le spese per Alimentari e bevande analcoliche e quella per Abitazione, acqua, elettricità e altri combustibili, manutenzione ordinaria e straordinaria. La crisi dei consumi ha riguardato maggiormente le famiglie che destinano quote più ampie del loro budget mensile ai settori più colpiti dalle restrizioni, mentre per il quinto di famiglie che spendono di meno e che fanno i conti con forti vincoli di bilancio, «la flessione è stata decisamente più limitata».
Duramente colpito il mercato del lavoro. L’occupazione, ha rilevato ancora il presidente Istat, «è diminuita drasticamente nel 2020 a seguito degli effetti recessivi della pandemia, i cui contraccolpi si sono estesi fino a gennaio 2021; da febbraio, è tornata a crescere, seppure in modo graduale». La prima decisa contrazione del numero di occupati si registra tra marzo e aprile 2020; tra luglio e agosto segnali di ripresa, che lasciano spazio a una nuova diminuzione da settembre, fino al minimo del gennaio 2021: -916mila occupati rispetto a febbraio 2020. Tra febbraio e maggio 2021, il numero di occupati è cresciuto progressivamente, fino a quota 22 milioni 427mila (+180mila, +0,8% rispetto a gennaio 2021), un livello comunque inferiore di 735mila unità (-3,2%) rispetto a quello pre-pandemia (febbraio 2020) e prossimo ai livelli occupazionali registrati a metà 2015.
Il tasso di occupazione nella fascia 15-64 anni – che a gennaio 2021 ha raggiunto il valore minimo degli ultimi due anni (56,5%) – è tornato a crescere da febbraio 2021, raggiungendo il 57,2% a maggio 2021, con un guadagno di 0,6 punti rispetto a inizio anno; il valore è tuttavia ancora inferiore di 1,5 punti a quello di febbraio 2020. Contestualmente, il tasso di disoccupazione – pari al 10,5% a maggio 2021 – segna un incremento di +0,1 punti rispetto a gennaio 2021 e di 0,7 punti rispetto a febbraio 2020, mentre quello di inattività è pari al 36,0% (-0,8 e +1,2 punti, rispettivamente). Maggiormente penalizzate l’occupazione femminile e giovanile.
A fine 2019, ha riferito ancora Blangiardo, «lavorava da remoto circa il 5% degli occupati, con una forte prevalenza degli indipendenti; nel secondo trimestre del 2020 l’incidenza ha superato il 19%, raggiungendo il 23,6% per la componente femminile, con un deciso aumento della quota dei dipendenti. In seguito – ha continuato -, l’incidenza del lavoro a distanza si è ridotta, in linea con l’evoluzione delle misure di contrasto all’emergenza, collocandosi al 14% in media d’anno». Si è trattato, nelle parole del presidente Istat, di «un mutamento improvviso, che nel giro di poche settimane ha portato l’Italia in linea con la media europea, partendo da una posizione molto arretrata». In ogni caso – nonostante i problemi di conciliazioni di spazi e tempi di vita lavorativi e familiari segnalati nell’Indagine sul diario degli italiani (dicembre 2020-gennaio 2021) -, tra tutti gli occupati che a seguito dell’emergenza sanitaria hanno lavorato da casa, la quota di chi vorrebbe continuare a lavorare così tutti i giorni è contenuta (15,2%) mentre arriva a quasi un terzo (30,6%) chi è contrario a una prosecuzione di questa esperienza (34,4% tra gli uomini e 27,3% tra le donne). Il 42,3% sarebbe d’accordo ad accettare tale modalità di lavoro due-tre volte a settimana (in entrambi i casi con una prevalenza delle donne) e un 11,9% anche più raramente. Rispetto a un eventuale proseguimento dell’esperienza, «i segmenti di lavoratori e lavoratrici più svantaggiati quanto a spazi e tempi di vita – ha rilevato il presidente Istat – sono anche quelli che sarebbero maggiormente penalizzati da un proseguimento nelle stesse forme del lavoro a distanza».
28 luglio 2021