Tensioni Usa-Iran: la preghiera dei Domenicani di Erbil
Il convento Pierre Martyr si trova nel cuore della città del kurdistan iracheno presa di mira dai missili iraniani diretti alle forze militari Usa e internazionali
Si trova nel cuore di Erbil, la Capitale del Kurdistan iracheno presa di mira, la notte tra il 7 e l’8 gennaio, dai missili iraniani sparati contro le forze militari Usa e internazionali di stanza nella regione, il convento domenicano Pierre Martyr. Proprio accanto all’aeroporto. «Preghiamo per la pace in Iraq e nella regione», spiegano i monaci, raggiunti dall’Agenzia Sir. Nella prima notte di razzi, nessuna vittima. L’auspicio è che «possa prevalere il dialogo tra persone di buona volontà».
Dei due missili lanciati dall’Iran, raccontano dal convento, uno è caduto a 50 chilometri da Erbil, in mezzo alla campagna, ed è esploso senza causare vittime, almeno secondo quanto riferiscono altre vocilocali. L’altro è caduto senza esplodere. Sul posto si trova anche padre Olivier Poquillon, già segretario generale della Comece (Commissione degli episcopati dell’Unione europea), che dallo scorso settembre si è trasferito in Iraq, per stare accanto alle popolazioni locali e alla comunità cattolica. In città c’è la cattedrale da ricostruire. Al Sir Poquillon racconta di una situazione che preoccupa tutti; lo sguardo è rivolto alla politica internazionale, a Teheran e a Washington, che – questo è l’auspicio – si spera non giochino d’azzardo, mettendo in pericolo altre vite umane. «Abbiamo pregato per la pace e continuiamo a farlo».
Il timore ora è quello di nuove emigrazioni di massa, anche tra i cristiani: ciò che fa paura -spiegano da Erbil – non sono solo i missili ma è l’attesa stessa, l’incertezza, il timore di una escalation bellica. In quel caso la guerra potrebbe estendersi allo stesso Iraq, ai Paesi arabi, forse a Israele, Libano, Siria. Terre già martoriate dalla guerra e già soggette a forti esodi di massa.
Parla di grande «tensione» tra gli abitanti di Erbil anche padre Paolo Mekko, parroco caldeo di Karamles, uno dei villaggi della Piana di Ninive. «La paura più grande è quella di non sapere cosa accadrà. Quali potranno essere le conseguenze. È una paura che blocca», spiega, raccontando lo stato d’animo dei cristiani di Erbil, con cui «sono in contatto continuo». Nella Capitale del Kurdistan iracheno infatti ci sono ancora numerosi cristiani fuggiti dalla Piana di Ninive dopo l’invasione del 2014 ad opera dello Stato Islamico, che aspettano di tornare alle proprie case distrutte per ricostruirle. «Il sentimento più diffuso tra la gente in queste ore – prosegue – è che l’Iraq non deve diventare un campo battaglia per Usa e Iran. Ci troviamo un’altra guerra in casa che nessuno vuole. Gli iracheni stanno manifestando in piazza da ottobre per invocare riforme e cambiamenti, la fine della corruzione, migliori condizioni di vita e rispetto dei diritti. Questo vogliono gli iracheni, non più guerre sulla loro pelle».
Secondo il sacerdote caldeo, le proteste «aumenteranno una volta che questa tensione diminuirà. Il popolo sa bene cosa vuole, di certo non la guerra». Soprattutto «non vuole che gli Usa replichino le sanzioni contro l’Iraq, sarebbe per noi un colpo mortale. Questa è una grande paura per tutti gli iracheni che rimarrebbero schiacciati tra gli interessi di Usa e Iran».
9 gennaio 2020