Una Pasqua diversa: questo tempo non perdona vuote retoriche

La responsabilità di chi vuole farsi carico di quel grido «è risorto» a scuola, al lavoro, nelle strade, nel tempo di una prossimità collettiva alla dimensione del morire mai percepita così

Quest’anno la celebrazione della Pasqua m’è sembrata diversa. Forse è stata una percezione personale – e la prima regola dovrebbe essere quella di diffidare o avere l’accortezza di denunciarne il limite nel momento stesso in cui le percezioni si dichiarano – eppure la Pasqua m’è parsa diversa, per il potere risonante di certe sue parole: rinascita, resurrezione, vita, che ho avvertito forti come mai prima. Per chi crede dovrebbe essere sempre così, qualcuno obietterà. Ma io non faccio riferimento all’esperienza personale della fede, ché quella è per ognuno, privata, pur nella consapevolezza per chi la vive della sua universalità. No, io parlo del rumore della Pasqua di quest’anno nel consesso storico presente e così buio del nostro tempo.

Viviamo una prossimità collettiva alla dimensione del morire, per lo meno per me che sono uomo di mezza età, inedita, mai percepita così da tutti. Tre anni, ma forse anche più, nei quali al di là degli accadimenti, se mutazione antropologica c’è stata, la più profonda forse riguarda la sottrazione dell’aspettativa di un futuro che sia ancora desiderio, svelamento, approdo. E anche questo, obietterà qualcuno, c’è da sempre nella vita di ogni persona, che la prossimità al morire, i nostri conti personali con la morte, sono la vita stessa di ognuno.

Sì, certo, eppure insisto su una pervasività che è collettiva, condivisa, come un tempo non lontano lo era la spinta, più o meno sofferta, combattuta, dichiarata, verso il domani. O forse questo, per tornare nell’alveo dove si giustifica questa rubrica, è davvero il tempo di Leopardi, della consapevolezza di come l’uomo in certe epoche tocchi con mano collettivamente, e non solo personalmente, l’arido vero, la natura che gli è nemica, quella dell’uomo che è lupo per il fratello. Non parrebbe certo essere il paradigma di Dante, quello del viaggio al termine della notte, dove invece la contezza assoluta del male, del dubbio umano e infine della luce contemplata, dicono che tutto è amore che muove il sole e le altre stelle.

Ma forse proprio per questo, ora che è buio, quelle parole circolate nei dintorni del Venerdì e del Sabato Santo, del silenzio che alla fine ha svelato per l’ennesima volta nella Pasqua quell’«è risorto», che la vita è più forte della morte, che il bene esiste e sarà l’ultima parola, ecco, proprio per questo hanno fatto così tanto rumore. Penso alla responsabilità di chi si vorrà fare da oggi, che il triduo è finito, carico di quelle parole, di quell’«è risorto» nelle chiese e nei loro luoghi, ma anche del ridire che la vita esiste ed è più forte della morte, e questo anche nelle strade, in città, nelle scuole, al lavoro, nelle case; penso che sia una responsabilità che non ammetterà più imposture, che il tempo presente è feroce e non perdonerà retoriche vuote; penso che saranno parole che non potranno solo essere luce che illumina il buio, ma fiamma che si faccia incendio, o non saranno, non saremo.

20 aprile 2022