Don Bruno Nicolini, a fianco degli zingari, oltre la frontiera del pregiudizio
Chiamato a Roma da Montini nel 1964, spese la vita a fianco di un popolo che amò profondamente e fino all’ultimo giorno. La fondazione dell’Opera nomadi
Nel settembre del 1965, mentre il Concilio Vaticano II si avviava alla conclusione, si tenne alle porte di Roma, a Pomezia, un pellegrinaggio particolare: quello di tutti i gitani d’Europa, voluto da Paolo VI. A quell’evento che si tenne tra il 25 ed il 27 settembre è stato dedicato un bel volume (Susanna Placidi, Una giornata particolare. L’incontro di Paolo VI con gli zingari a Pomezia, Tau, 2017). Il Papa scelse quella data e visitò il campo che accoglieva i pellegrini il 26 settembre. Era il giorno del suo compleanno, e volle passarlo con loro. Si trattò di un incontro storico che intendeva manifestare al mondo l’amore di Dio per quei «pellegrini perpetui», per quei «viandanti senza riposo», invitandoli a trovare il loro posto nel cuore della Chiesa. Fu il segno di una Madre che si faceva per la prima volta, manifestatamente, vicina al popolo che tanto amava. Paolo VI operò con quel percorso tra i palazzi Apostolici e Pomezia una riconciliazione profonda con un popolo spesso messo ai margini, perseguitato, sterminato nei lager nazisti, considerandolo composto non da stranieri di cui sospettare ma da fratelli carissimi. Li definì «amati figli di questa Chiesa».
Tra gli organizzatori di quell’incontro c’era don Bruno Nicolini, un prete nato nel profondo nord italiano, che consacrò la sua vita agli zingari, a comunicare loro il Vangelo, a farli sentire parte della famiglia cristiana. Chiamato a Roma da Papa Montini nel 1964, don Bruno continuò a spendere la sua vita a fianco di un popolo che amò profondamente e fino all’ultimo giorno della sua vita. Don Nicolini era nato a Bolzano il 13 gennaio 1927. Il padre, Angelo, faceva il ferroviere, e la madre accudiva la famiglia. La famiglia, arricchita anche da una sorella e un fratello, visse alcuni trasferimenti (prima a Trento, poi a Mondovì) a causa del lavoro del padre ma dal 1938 fu di nuovo stabilmente a Bolzano. Il giovane entrò in seminario e visse il dramma della seconda guerra mondiale in prima persona, costretto a nascondersi nei boschi trentini per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi. Il 29 giugno 1950 venne ordinato sacerdote a Trento, inviato poi nella parrocchia di Pinzolo dove si diede da fare per affiancare alla chiesa un oratorio efficiente. Poi fu parroco a Trento e per breve tempo a Levico Terme. A Bolzano insegnò religione nella scuola commerciale. Fu in quegli anni che si avvicinò alla pastorale per gli zingari e nel 1959 fu incaricato dalla diocesi di Trento di occuparsi di questo nuovo fronte. Poi se ne occupò anche a Bolzano, dove nel 1963 fondò l’Opera Nomadi, una associazione senza scopo di lucro che aveva tra gli obiettivi quelli di favorire l’integrazione delle minoranze rom, sinte e camminanti nella società italiana, di ottenere il loro riconoscimento come minoranza etnica e linguistica e di contrastare i pregiudizi diffusi. L’Opera nomadi nel 1966 si diede una struttura regionale e nel 1970 fu eretta come ente morale.
Don Bruno giunse a Roma nel 1964 per partecipare al primo convegno internazionale per la pastorale agli zingari promosso dall’allora Sacra Congregazione Concistoriale e presieduto dal cardinale Carlo Confalonieri e diretto dal vescovo di Digne Bernardin Collin, primo vescovo incaricato degli zingari in Francia. Fu in quell’occasione che don Bruno conobbe un gruppo di cappellani che per lui rappresentarono gli “apostoli”: coloro che avevano iniziato un cammino di vicinanza agli zingari, avendo preso consapevolezza dell’eccezionalità di quel popolo incontrato nei campi di sterminio nazisti, col quale avevano condiviso la sofferenza estrema, rimanendo edificati dalla dignità dei suoi componenti e della profonda spiritualità espressa in piccoli gesti di riconoscenza e di tenerezza, in una situazione drammatica. Il Congresso terminò con un’udienza particolare in cui il Papa accolse la proposta di un pellegrinaggio degli zingari: quello che venne poi realizzato e coronato nell’incontro con Paolo VI a Pomezia. Il mese successivo all’incontro, nell’ottobre 1965, Paolo VI istituì l’Opus Apostalatus Nomadum, annesso alla Sacra Congregazione per i vescovi, che poi sarebbe confluito poi nel Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti.
Intanto don Bruno, ormai stabilitosi a Roma, prese ad insegnare religione al liceo classico Dante Alighieri e nel giugno 1967 venne nominato segretario internazionale dell’Opus Apostolatus Nomadum. Affiancò al suo impegno sul campo l’attività di approfondimento culturale convinto, come scrisse nel suo libro Famiglia Zingara edito nel 1969, che fosse necessario «affrontare un lavoro di ricerca e di studio, per offrire un contributo concreto a quanti, sacerdoti e laici, sono impegnati nell’apostolato agli zingari». Insieme a Mirella Karpati, nel 1978 diede vita al “Centro studi zingari” di Roma, ma già dal 1965 aveva dato vita alla rivista Lacio Drom (che in romanes significa “Buon Viaggio”), per approfondire temi culturali, come quelli della lingua e della storia del porrajmos (lo sterminio nazista degli zingari), il rapporto con le istituzioni.
Operò costantemente per continuare a tenere il suo popolo avvinghiato al cuore della Chiesa: fu lui a scrivere per Papa Woytjla da poco eletto il saluto che nella benedizione Urbis et Orbi del Natale 1978 fu letto anche nella lingua romanes; fu lui il regista, assieme a don Matteo Zuppi, della visita di Giovanni Paolo II a un piccolo accampamento di zingari, mentre il Papa si recava in visita nella parrocchia di Santa Rita a Tor Bella Monaca nel gennaio 1984. Nel suo lungo ministero don Nicolini non ha mai rinunciato al sogno che potesse nascere una nuova cultura della solidarietà e a tale proposito – come ricorda Susanna Placidi in una pagina della biografia che sta completando su questa grande, e non sempre compresa, figura di prete “romano” – diceva: «Quando la stagione dell’intolleranza verso gli zingari sarà finalmente chiusa, non sarà proprio questo un segno emblematico della società nuova, quella multi-razziale, multi-etinica, multi-culturale?». La sua vita, spesa andando a trovare i suoi amici nei campi infangati con la sua vecchia utilitaria, voleva rappresentare la restituzione di un amore con cui la Chiesa voleva risarcire i secoli in cui gli zingari sono stati dimenticati e disprezzati, richiamando tutti alla necessità di cambiare il proprio sguardo sulla storia di quel popolo.
Nel 2006 la città di Roma assegnò a don Bruno per il suo lungo impegno il Premio Campidoglio. E fu di don Bruno l’idea di edificare al Divino Amore, il santuario dei romani, una Chiesa a cielo aperto come meta di pellegrinaggio e di preghiera per i Rom e i Sinti, in cui fare memoria anche dello sterminio subito per opera del nazismo. La sua vita, quasi al termine, ottenne un grande momento di consolazione l’11 giugno del 2011, quando Benedetto XVI convocò a Roma l’incontro mondiale dei Rom in San Pietro. Ormai anziano e fragile, ha vissuto gli ultimi anni della sua vita in una casa della Comunità di Sant’Egidio, continuando a essere informato dei progressi e dei problemi del popolo che tanto amava dagli amici che continuavano la sua opera. Lì si è spento il 17 agosto 2012.
Celebrando il suo funerale nella basilica di Santa Maria in Trastevere, il 18 agosto 2012, l’allora vescovo ausiliare di Roma e oggi arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, che lo conosceva da decenni, disse: «Lo accompagniamo con molto affetto nell’ultimo tratto del suo cammino, lui peraltro morto nel giorno della memoria di San Rocco, santo pellegrino, che superava anche la frontiera più difficile, quella che allontana dalla sofferenza e dalla malattia. Bruno ha cercato di superare la frontiera del pregiudizio».
17 dicembre 2019