Ponte Mammolo, il “villaggio” sgomberato e la solidarietà delle parrocchie

Dopo l’arrivo delle ruspe di Roma Capitale, il sostegno delle comunità ai migranti rimasti senza casa. Don Fibbi: «Nessuno vuole vivere in un parcheggio»

Dopo l’arrivo delle ruspe di Roma Capitale, il sostegno delle comunità ai migranti rimasti senza casa. Don Fibbi: «Nessuno vuole vivere in un parcheggio»

Non era una baraccopoli ma «un piccolo villaggio, un punto di riferimento per tutti quei migranti che passavano per Roma, diretti nel nord Europa in cerca di una vita migliore». Dall’11 maggio, giorno in cui le ruspe del Comune di Roma hanno demolito l’insediamento decennale di Ponte Mammolo, monsignor Marco Fibbi, parroco di San Romano Martire, ha messo in campo una rete di aiuti che, incessantemente, sostiene gli abitanti sfrattati dalle loro baracche. «Non siamo soli – spiega -: tutte le altre parrocchie della zona stanno aiutando. A santa Maria del Soccorso, ad esempio, si occupano principalmente del vestiario, noi dei pasti giornalieri. E poi abbiamo un esercito di volontari, associazioni, la Caritas diocesana che, grazie all’interessamento continuo del direttore don Enrico Feroci, non ha mai smesso di esserci vicina. E la Comunità di sant’Egidio, da sempre presente in questo piccolo villaggio, che ora non c’è più».

Via delle Messi d’Oro era l’indirizzo di questa baraccopoli, sorta abusivamente circa 15 anni fa e da sempre abitata da gruppi di migranti di varie nazionalità, dal Montenegro al Bangladesh, all’America Latina, fino ad accogliere numerosi gruppi di eritrei. Rifugiati politici, famiglie, persone che sono scappate dai loro Paesi d’origine e sono arrivate in Italia per trovare una vita migliore. Moltissimi quelli che facevano di Roma solo una tappa momentanea, giusto il tempo di raccogliere i soldi per pagarsi il viaggio verso il nord Europa, loro vera destinazione. «Certo – ammette don Marco – vivevano in condizioni igienico-sanitarie precarie. Addirittura, in una delibera del municipio del 2014 si autorizzava l’installazione di un gabinetto chimico, mai arrivato».

Un campo spesso sovraffollato: quando le ruspe sono arrivate c’erano 450 persone. «Per le famiglie si sono aperti i centri di accoglienza. Altri, quelli di passaggio, sono stai spostati. Ora nel parcheggio antistante la baraccopoli vivono 60 persone in attesa di una sistemazione definitiva. C’è anche chi, qui, aveva la residenza – riferisce il parroco di San Romano -: un fatto che testimonia la longevità dell’insediamento, lo stesso visitato dal Papa lo scorso febbraio». Dall’11 maggio, il giorno dell’arrivo delle ruspe, l’intera comunità ha trovato un punto di riferimento nella parrocchia e si adopera per aiutare gli sfollati. «Mettiamo in pratica le parole di Matteo: “Portate da mangiare all’affamato”. Ecco, il Papa spesso usa l’immagine dell’ospedale da campo e io penso che le parrocchie rispecchino quest’immagine. Ospedali, non solo per le persone “ferite” ma anche come terapia intensiva per la fede agonizzante dei nostri cristiani. I fedeli che frequentano la Messa, aiutando questi profughi, riscoprono anche la loro fede, spesso assopita. Quando sentiamo parlare delle migrazioni, spesso sono descritte come un pericolo, quando sono invece un segno per manifestare la fede e la carità delle persone che si dicono cristiane».

Quando pensa ai cristiani, don Marco ricorda anche la sua esperienza in Iraq, dove ha visto la solidarietà dei cristiani iracheni verso i profughi. «Non posso essere lì – commenta – ma posso aiutare quelli che oggi sono i nostri migranti». Lo sgombero, riconosce, ha avuto conseguenze anche sui residenti: «Dal quel giorno, non è mai mancato chi ha portato coperte, tende e molto altro. E poi c’è una tolleranza maggiore: nella baraccopoli non c’erano servizi di alcun tipo e spesso, chi vi abitava, usava un piccolo parco vicino come bagno. Cosa poco gradita a molti. Dopo, in tanti hanno capito che questa è gente allo stremo. Ora è facile vedere i residenti che vanno a trovarli, parlano con loro, li confortano».

Il Comune di Roma ha ordinato lo sgombero per mettere fine a una situazione di grave disagio ma le soluzioni abitative trovate non sono state per tutti. In attesa di una decisione, 60 persone sono ancora per strada. «Nessuno vuole vivere in un parcheggio – dice don Marco – e noi continueremo ad aiutarli finché saranno lì. Non è un atto di sfida verso nessuno. Stiamo solo aiutando persone in difficoltà».

21 maggio 2015