Un post, l’uso delle lingue e l’ecologia della convivenza
Un messaggio sull’errore di un lettore, la riflessione sulle tecnologie e sulla deriva che porta ad annichilire l’interlocutore. Il discrimine tra istruzione ed educazione
Pochi giorni fa, su tutti i social, è girato il post di un noto giornalista-conduttore che annientava con poche parole («Vorrei ringraziare Nicola D., che dopo aver letto il Corriere questa mattina mi manda il messaggio che segue. Di diritto nella top ten di sempre») un anonimo lettore che lo aveva maldestramente rampognato così: «Aut aut non si può leggere da un giornalista che scrive per il Corriere. Magari Out Out? Magari studiare un po’ di inglese se lo si vuole usare? Scusi l’intervento, ma il Corriere non è il gazzettino di un paesotto di provincia ma il più importante quotidiano nazionale. La vostra precisione è d’obbligo».
Il post è diventato virale, è arrivato anche nella mia bolla e così ho letto qualche commento. Mi sono fermato su uno, citofonato e prevedibile, che più o meno recitava così: «Ma se questi scambiano ancora il latino con l’inglese, inutile girarci intorno, la colpa è soltanto della scuola». Lì per lì ho pensato: «Stai a vedere che anche i miei scriveranno out out anziché aut aut, sarà meglio sentirli domani» e poi a cascata, «qualcuno scriverà di sicuro qual’è con l’apostrofo e magari piuttosto congiuntivo anziché disgiuntivo, oddio devo verificare»; insomma, a tutti quei cavalli di battaglia che da qualche anno paiono essere i bollini certificati del nostro sentirci cruscanti a fronte delle orde di trogloditi che ignorerebbero la sacra lingua. «Domani a scuola sarà la prima cosa che farò», mi sono detto; «domani a scuola sarà la prima cosa che farò?», mi sono chiesto.
Eh sì, perché sono bastati pochi secondi per capire che di quel dimenticabile post sull’out out in fondo non avrei dovuto portare in classe giusto il rispetto del lessico latino, che a ridire la forma corretta ci avrei messo mezzo secondo e se la sarebbero ricordata per sempre, come ci ricordiamo tutti di tante nozioncine imparate sui banchi. A scuola avrei dovuto invece parlare di errori, ma non grammaticali, di errori più importanti. Quello certo condannabile di chi un po’ maldestramente ha sentito l’impulso di mettersi a correggere l’altro senza troppo riflettere e verificare, e anche per questo ci avrei messo poco, ma soprattutto quello più serio, significativo, questo sì da portare in classe e discuterci per ore, del giornalista-conduttore che, da una posizione facile e di potere assoluto, ha deciso di mettere alla berlina, di battezzare urbi et orbi la presunta cretineria/ignoranza dell’anonimo troglodita della lingua. Ecco, di questo mi sono detto, a scuola ne dovrei parlare per ore.
Perché tra l’istintivo «ha fatto bene, gli sta bene», dal quale ognuno di noi è tentato, e il peso complesso del ragionamento sul mezzo tecnologico, il modo, il contesto sociale, politico e culturale che oggi ci permette di annichilire chiunque con una violenza alla quale colpevolmente ci siamo abituati, c’è proprio il discrimine tra generica istruzione ed educazione, tra impatto e rispetto, tra una deriva che percepiamo tutti e il recupero di una ecologia della convivenza che anzitutto, ogni giorno, la scuola si sforza di custodire.
23 febbraio 2022