La domanda sulla felicità
Riflessioni sul desiderio di un’adolescente tra le righe di un tema e sul senso di quella parola su cui spesso si agitano i nostri pensieri
Questa settimana ho avuto a che fare con la domanda sulla felicità. Tutto inizia di domenica, complice un pomeriggio piovoso e la presenza sul tavolo di due pacchi di verifiche da riconsegnare il giorno dopo. Mi armo di pazienza e mi siedo. Dopo un paio d’ore di voti, penna rossa e tè caldo, un bagliore inatteso mi investe, tanto da fare nascere l’urgenza di condividerlo con qualcuno. Ma sono solo in casa, non so a chi dirlo, eppure devo dirlo, mi serve qualcuno a cui dirlo, alla fine scrivo un post su Facebook: «Tra le righe scarabocchiate di un tema (poca voglia di correggerlo ma poi): “in fondo vorrei soltanto essere felice”. Ragazza, oggi piove ma hai acceso un sole atomico fuori dalla finestra».
Riprendo a correggere le verifiche, il sorriso che mi ha regalato la purissima stilla di luce separata da quelle poche parole ha riempito il mio studio. Non sento la fatica di andare avanti con le correzioni, metto anche un po’ di musica in sottofondo. Il tempo si è fatto lieve, non mi infastidisce la pioggia sottile, finché arriva una notifica sul telefono. Un amico e collega che stimo molto ha commentato il mio post con queste parole: «fossi in te, mi prenderei un po’ di tempo per farla riflettere su quel soltanto». Rileggo più volte il commento, sento che sono parole importanti, che hanno a che fare con l’essenza stessa di quanto scritto dalla mia studentessa, eppure sono ancora fuori fuoco, le afferro con incertezza, sento che devono decantare.
Passa una settimana, durante la quale un po’dimentico le parole del tema e dello scambio con il mio collega, un po’ ci ripenso quando riconsegno la prova alla ragazza, per altro il voto finale è appena discreto, sono distaccato quando glielo commento, anche se sento dentro ancora viva quella frase che ha continuato a dialogare, in modo carsico, con il commento del mio amico e collega. Poi capita che a distanza di sette giorni, di domenica, vado a trovare una persona anziana che conosco da una vita e alla quale per un certo periodo sono stato molto legato. Passiamo insieme qualche ora durante le quali mi rendo conto di come, a fronte di una vita oggettivamente ricca di successi personali e oramai giunta ai suoi ultimi anni, lui sia una persona oggettivamente e indubitabilmente infelice.
Uscendo da quella casa (anche quella domenica sta piovendo), durante il tragitto di ritorno vedo due estremi che si sono guardati a distanza. Quell’«in fondo vorrei soltanto essere felice», reso così vero dall’incoscienza pulita dei sedici anni, si pone di fronte all’assoluta infelicità dell’anziano che ho appena incontrato. Forse fin troppo facilmente mi domando se dentro questa tensione assoluta si ponga la giustezza dell’osservazione del mio collega, se tra queste due colonne d’Ercole si ponga la domanda aperta su quella parola, felicità, così leggera e così pesante che spesso ci combatte tra i nostri pensieri. Non so darmi risposte, ma so che questa è una tensione che significa il mio stesso essere nella scuola, il luogo dove per natura l’ago della bilancia tende assolutamente verso il segno della vita e un’esistenza fuori da quelle aule dove in modo misterioso ed eterno quell’ago sembra spesso, inesorabilmente, piegare verso il segno opposto.
15 maggio 2019