“Lubo”, tra racconto e denuncia
Nel film di Giorgio Diritti, ultimo dei 6 italiani in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, la vicenda della popolazione Jenisch nella Svizzera tra gli anni ’30 e il 1958
Svizzera, 1939. Lubo, giovane nomade di etnia Jermish, viaggia con moglie e tre figli di città in città, dove propone i propri spettacoli come artista di strada. Mentre è in viaggio, viene raggiunto da un’ordinanza dell’esercito elvetico che lo obbliga ad abbandonare la famiglia e a presentarsi alla leva obbligatoria.
Passato alla recente Mostra del Cinema di Venezia come ultimo dei sei film italiani in concorso, Lubo, di Giorgio Diritti, riporta in primo piano una vicenda a lungo dimenticata se non del tutto ignorata, svoltasi nella Svizzera tra gli anni ’30 e il 1958. In uscita nelle sale dal 9 novembre, Lubo dipana con lentezza e metodo la storia di quest’uomo “tranquillo” che in un attimo vede la vita sua e della sua famiglia andare a rotoli senza potersi opporre. Da artista di strada, quindi solitamente portato ad esibirsi per un pubblico di bambini e ad accogliere i loro applausi, le risate, il loro divertimento, Lubo si ritrova con indosso la divisa dell’esercito elvetico nel freddo contesto delle montagne svizzere.
Per quanto frastornato e con la testa confusa, l’uomo sa con esattezza qual è il suo obiettivo: ritrovare la moglie e i tre figli, che gli sono stati sottratti senza una parola. Grazie a un astuto stratagemma, assume l’identità di un ricco commerciante austriaco di gioielli e, così cambiato, comincia a girare per i migliori alberghi, vantando grandi affari e opportune conoscenze. Sotto queste mentite spoglie, l’uomo ha facile accesso ai luoghi più importanti e conosce persone che occupano posizioni di rilievo. Questa situazione va avanti per tutto il decennio dei ’50, quando con l’emergere delle prime crepe il castello di bugie viene a poco a poco a galla. Da questo momento per Lubo si tratta di dover fare i conti con le sue menzogne ma anche con scomode verità ai danni della popolazione Jenisch.
Il racconto inciampa in una lunghezza forse eccessiva (180 minuti) che vuol dire allungare in modo improprio alcuni momenti narrativi e dare spazio a personaggi non determinanti. Nato a Bologna nel 1958, Diritti ha diretto in venti anni di attività cinque film compreso questo, a partire dall’esordio, quel Il vento fa il suo giro (2005), pluripremiato nei festival internazionali e con quattro David di Donatello. Del 2020 è Volevo nascondermi, biografia del pittore Ligabue, premiato al Festival di Berlino. Lubo alterna racconto storico, indagine civile e sguardi da film di denuncia. Non c’è dubbio che, nonostante certi passaggi un po’ ondivaghi, Diritti conquista con la qualità della sua regia, sempre ariosa, profonda, meditata. Franz Rogowski, un Lubo impenetrabile, affronta la prova più difficile della sua carriera. Dal coro dei tanti comprimari si stacca Valentina Bellè, nel ruolo della indifesa cameriera Margherita. Film ispido e mai conciliante, specchio di una società malata.
7 novembre 2023