“My city of ruins”, con Springsteen dal degrado alla speranza
Quasi un ritratto delle periferie delle città. Immagini dal sapore “pasquale” e dal forte senso religioso
La violenta protesta a Torre Maura, periferia est di Roma, ha colpito per la rabbia e per il gesto di gettare e calpestare i panini (il pane, simbolo supremo del cibo) destinati ai 77 rom trasferiti in una struttura di accoglienza del quartiere (e successivamente destinati ad altri centri cittadini per decisione del Campidoglio). Un nuovo grido d’allarme dalle periferie, sempre dimenticate, dove negli anni le tensioni si sono accumulate generando disagi economici e sociali, isolamento, malcontento.
Ed è un grido che sale dalle periferie della città anche quella “My city of ruins” che Bruce Springsteen lanciò nell’album “The Rising”, nel 2002, dopo il terribile attentato alle Torri Gemelle di New York (e che cantò al concerto per le vittime di quella strage) ma che in realtà fu scritta prima di quella tragedia collettiva che colpì l’America e il mondo intero, con la mente al degrado della “sua” città, quella Asbury Park (in New Jersey) dove trascorse un periodo iniziale della sua carriera. In questo brano c’è tutta la rabbia, l’amarezza, la rassegnazione, la disperazione di ogni città, soprattutto di quelle dell’Occidente ricco e costellato da grandi contraddizioni come le sacche di povertà e le tensioni sociali apparentemente irrisolvibili (è il caso dei ripetuti episodi di questi ultimi anni a Roma, in particolare nel quadrante est).
“The Boss” scolpisce fin dall’inizio, e senza sconti, nelle parole della canzone immagini sorprendentemente efficaci nel trasmetterci il dramma del disagio fin dall’inizio, e senza sconti. «C’è un cerchio rosso sangue / sulla fredda terra scura / e la pioggia cade / la porta della chiesa è spalancata / sento il canto dell’organo / ma i fedeli non ci sono più / la mia città di rovine / la mia città di rovine. / E le dolci campane della misericordia / si diffondono fra gli alberi della sera / i ragazzi all’angolo come foglie disperse / le finestre sbarrate / le strade vuote / mentre il mio fratello cade in ginocchio / la mia città di rovine / la mia città di rovine». C’è solo un frammento di speranza, quelle “dolci campane”, con la parola chiave della “misericordia”, mentre tutt’intorno c’è un panorama di desolazione: «ragazzi come foglie disperse, finestre sbarrate, strade vuote».
Ma ecco la svolta di speranza che Springsteen consegna all’ascoltatore. Quel triplice “Come on, rise up”, che nella traduzione ufficiale italiana del disco, curata da Alessandro Portelli (storico, critico musicale, già docente di letteratura anglo-americana), diventa un “Avanti, alzati!, avanti, alzatevi!” e a cui però poco dopo padre Antonio Spadaro, gesuita, all’epoca critico letterario e studioso del “Boss”, ha dato la sua piena espressione e, possiamo dire, dignità trasformandolo in “Andiamo, risorgete” in un lungo saggio sulla prestigiosa rivista “La Civiltà Cattolica” (di cui ora è direttore). Un brano, dunque, dal sapore “pasquale”, per un percorso narrativo che passa dalla rassegnazione alla redenzione, necessariamente preceduta dalla croce (pensiamo a quelle immagini di morte che aprono la canzone, dal “cerchio rosso sangue” alla “fredda terra scura”).
A corroborare la validità dell’interpretazione di Spadaro, oltre a tanti richiami biblici nella produzione del musicista e cantautore statunitense – così espliciti che un docente di un’università del New Jersey ha organizzato un corso sulla teologia springsteeniana -, lo stesso titolo dell’album “The Rising” (“La Risurrezione”) e il trascinante finale di “My city of ruins”, che ne evidenzia gli autentici connotati di preghiera (non “laica”, come qualche addetto ai lavori ha scritto, ma pienamente permeata di senso religioso): «E con queste mani / con queste mani, / io prego Signore / con queste mani / prego di avere la forza, Signore / con queste mani prego di avere la fede, Signore / preghiamo per il tuo amore, Signore / preghiamo per i perduti, Signore / preghiamo per questo mondo, Signore / preghiamo di avere la forza, Signore / preghiamo di avere la fede, Signore».
Del resto, era stato lo stesso Springsteen, in un’intervista di pochi anni prima, a confermare in quale immaginario affondassero le radici di gran parte della sua produzione musicale: «Io credo che nei primi dodici anni accumuliamo le immagini che ci accompagneranno per tutta la vita. Io frequentavo una scuola cattolica. L’anima non è un’astrazione per un bambino. È molto reale. La prendi alla lettera. E l’immaginario cattolico, così come la Bibbia, è un modo straordinario di esprimere il viaggio dell’uomo, dello spirito umano. Io ritorno a quelle immagini d’istinto».
16 aprile 2019