Rosario Livatino e la giustizia come progetto di fede ed esercizio di carità

A San Pio X l’incontro sul giudice ucciso dalla stidda agrigentina nel ’90, beatificato il 9 maggio. L’arcivescovo Pennisi: «Sulla sua scrivania, il Vangelo e il crocifisso»

«A trent’anni dal sacrificio, la lezione morale che il beato Rosario Livatino ci trasmette è quella di un testimone radicale della giustizia come progetto di fede e come esercizio di carità cristiana». Sono queste le parole dell’arcivescovo di Monreale Michele Pennisi, chiamato a tirare le fila dell’incontro “Rosario Livatino – Le tappe di un cammino di santità”, svoltosi ieri sera, 9 giugno, nei locali della parrocchia di San Pio X alla Balduina e trasmesso in streaming sul canale YouTube. «Durante il processo canonico è emerso che il martirio formale subìto da Livatino si fonda su una vita ordinaria caratterizzata da una sintesi tra religione e diritto», ha aggiunto Pennisi, ricordando l’impegno esemplare del magistrato martire della giustizia ucciso “in odium fidei” dalla stidda agrigentina nel 1990 e beatificato il 9 maggio scorso. «Chi ha studiato i diari di Livatino giudice, ma prima ancora uomo e credente, attesta di incertezze, di lacerazioni interiori e di silenzi che lo rendono ancora più umano, vero e vicino – ha proseguito il presule -. Il Vangelo e il crocifisso, sempre presenti sulla sua scrivania, erano una perenne provocazione al compito che svolgeva». Egli, infatti, ha «sempre sentito profondamente il fascino di Dio come garante di libertà e di giustizia».

Intervenuto all’incontro anche Alfredo Mantovano, consigliere della Corte di Cassazione e vicepresidente del Centro studi Livatino, il quale ha tratteggiato gli aspetti di unicità di questo professionista rigoroso e integerrimo, il primo magistrato laico a essere proclamato beato. «Livatino, come tanti suoi colleghi all’epoca in terra di mafia, operava “a mani nude” contro una criminalità radicata e aggressiva – ha commentato -.  Anche se è un uomo del nostro tempo, gli anni che sono trascorsi da quando è stato ucciso hanno visto dei cambiamenti profondi e sarebbe un errore avvicinarsi a lui immaginando che le condizioni nelle quali oggi un magistrato opera fronteggiando la criminalità mafiosa siano simili a quelli che hanno caratterizzato l’esercizio delle funzioni da parte di Livatino, prima come pubblico ministero per 10 anni e poi come giudicante ad Agrigento». Nel 1990 «non esisteva ancora nessuna legislazione sui collaboratori di giustizia né il cosiddetto 41-bis e questo per Livatino ha avuto un significato particolare perché il suo omicidio è stato deciso proprio all’interno del carcere», ha proseguito il magistrato, aggiungendo che «anche sul piano organizzativo non esistevano né la procura nazionale né le procure distrettuali antimafia, dunque lo stesso coordinamento delle indagini era estremamente complesso». Chiara, nelle parole di Mantovano, l’eredità consegnata ai colleghi: «Nelle sentenze e decreti di cui Livatino è estensore emerge, in ogni passaggio, la cura per il dettaglio e la ricostruzione di insieme. Questo può essere di grande insegnamento, visto che uno dei limiti più frequenti del lavoro giudiziario è proprio la sciatteria, ovvero la scarsa cura per la preparazione e, al tempo stesso, approssimazione nella redazione dei provvedimenti e nel rispetto dei termini». Insomma, per Livatino, autentico rappresentante delle istituzioni, «fare il magistrato coincideva con l’essere magistrato».

Il suo profilo di grande esperienza e maturità è stato evidenziato anche da Alfredo Ruocco, consigliere della Corte d’Appello: «Grazie alla sua capacità investigativa e alla sua tenacia si sono tenuti numerosi processi, tra i quali il primo maxiprocesso alle cosche agrigentine e altri legati a reati ambientali – ha detto -. Era una persona riservata, lontana dal clamore mediatico, eppure, nello stesso tempo, molto aperta al prossimo». Un testimone attivo che, già all’epoca, «andava nelle scuole a parlare di legalità e costituiva un punto di riferimento nel tribunale dove lavorava», ha proseguito Ruocco, concludendo che «la forza di volontà insieme alla fede trasparivano già all’inizio della sua attività, per la quale aveva una vera e propria vocazione».

10 giugno 2021