SeaWatch e Sea Eye. Unhcr: «No a negoziati sulla pelle delle persone»
Dopo 19 giorni alcuni migranti rifiutano il cibo, si temono atti di autolesionismo. Sami (Unhcr): «Salvataggio e sbarco nel più vicino porto sicuro vanno distinte da accoglienza»
Dopo settimane, le due navi delle ong Sea Watch e Sea Eye attendono ancora un porto sicuro di sbarco. E le condizioni a bordo sono sempre più difficili. Sulla Sea Watch (al 19° giorno in mare) alcuni dei 32 migranti hanno iniziato a rifiutare il cibo. Le forze sono allo stremo e i medici temono atti di autolesionismo, per questo anche oggi, Kim, il capomissione, ha riunito le persone per spiegare che quello che si sta portando avanti è un «combattimento difficile. Da una parte c’è la politica, dall’altra la società civile, che combattono l’una contro l’altra. E il combattimento sta diventando sempre più estremo». Mentre le ore passano senza l’assegnazione di un porto sicuro, vanno avanti le trattative diplomatiche e si ripetono gli appelli da parte delle organizzazioni umanitarie alla responsabilità europea. Anche l’Unhcr, dopo aver sollecitato gli stati il 31 dicembre scorso, ha chiesto di nuovo una soluzione rapida per i migranti a bordo. «Non era mai successa una cosa del genere: tenere le persone in mare per così tanti giorni. Soprattutto se consideriamo che stiamo parlando di un un numero basso di persone, 49 in tutto. È il limite a cui si è arrivati continuando con questo approccio barca per barca – dice Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa -. Nonostante siano stati fatti diversi tentativi per portare i paesi europei a discutere dei meccanismi di sbarco, che devono essere immediati, e a distinguere questa fase da quella cosiddetta di “redistribuzione” dei richiedenti asilo».
A giugno, in occasione del summit europeo, Unhcr e Oim avevano provato a portare avanti una proposta di collaborazione tra Ue, Onu e Unione Africana, che prevedeva piattaforme di sbarco e redistribuzione dei migranti tra i paese europei. «Noi abbiamo fatto una proposta che partiva dalla considerazione che il lavoro di salvataggio e sbarco si doveva fondare sul comune senso di responsabilità – spiega Sami -. La nostra proposta comprendeva i Paesi europei e alcuni Paesi che si affacciano sulla sponda sud del Mediterraneo, nel NordAfrica. Esclusa la Libia che, lo ripetiamo, noi non consideriamo un porto sicuro. È un Paese verso il quale le persone salvate in acque internazionali non devono essere riportate». Il progetto, «nonostante fosse molto operativo e potesse svolgersi passo per passo, vedendo tutti i Paesi cooperare in maniera equa, non è andato avanti – aggiunge Sami -. Il negoziato politico fatto sulla pelle delle persone, in un approccio barca per barca, è diventato una modalità di discussione e di relazione tra alcuni paesi europei, e questo è il dato più preoccupante che non possiamo accettare».
Il rischio di una crisi diplomatica per ogni singolo salvataggio operato dalle imbarcazioni delle ong, era già stato paventato dopo il caso della nave Aquarius, ma anche in occasione dello stallo sulla Diciotti, nave della Guardia Costiera italiana. «Ora vediamo quanto si sia spinto in là il limite considerato accettabile sulla pelle di queste persone – continua Sami -. La fase del salvataggio e dello sbarco nel più vicino porto sicuro deve avvenire in tempi brevi e deve essere distinta dalla fase dell’accoglienza. Non si possono discutere questioni di accoglienza mentre le persone si trovano in mare a rischio di annegare o a bordo di una nave che non è un luogo proprio e sicuro».
L’Unhcr ricorda inoltre che la rotta del Mediterraneo centrale continua a essere sempre più pericolosa. «Abbiamo lanciato un allarme su questo: è vero che quest’anno ci sono state meno morti rispetto al 2017, ma se paragoniamo il numero di morti degli ultimi 12 mesi (2200) alle persone arrivate in Europa via mare, il numero dei morti è altissimo. L’altissima probabilità di morire su questa rotta è determinata dal fatto che il ruolo delle organizzazione non governative si è ridotto, così come la capacità di salvataggio».
Anche l’Oim (organizzazione internazionale delle migrazioni) si dice molto preoccupata per la situazione, che non accenna a risolversi. «È necessario che gli Stati europei facciano qualcosa per sbloccare questa situazione. Non ricordo uno stallo così lungo – afferma il portavoce Flavio Di Giacomo -. È veramente dura per le persone stare in mare così tanti giorni, anche dal punto vista psicologico. Le condizioni invernali, non aiutano, la nave ha fatto rotta verso Malta proprio per ripararsi e nei prossimi giorni si prevede un peggioramento. Questo vuol dire che la situazione va assolutamente risolta in tempi brevi». Per Di Giacomo stupisce quanto il livello di solidarietà europeo sia cambiato. «Stiamo parlando di un numero esiguo, quasi simbolico di persone: 49. Tra queste ci sono famiglie, donne e bambini, eppure si crea questa impasse – aggiunge -. Negli anni passati l’Europa è stata in grado di gestire numeri ben più alti, eppure non ricordiamo situazioni come questa».
Il portavoce dell’Oim ricorda anche come la visione molto eurocentrica del fenomeno migratorio porti a pensare di continuo a un’invasione: «In realtà la migrazione forzata è soprattutto un fenomeno Sud-Sud, i flussi sono essenzialmente intra-aficani. In questo contesto i numeri che riguardano l’Europa sono bassissimi. Non dovremmo neanche essere felici di questa diminuzione degli arrivi, perché nei fatti significa che le persone restano bloccate in Libia, nei centri di detenzione, dove le condizioni sono inaccettabili». La diminuzione degli arrivi, ricorda Di Giacomo, era iniziata già col governo precedente. Ora «si ribadisce che i porti sono chiusi, eppure 165 persone sono arrivate in Italia dal 22 dicembre a oggi, secondo fonti del Viminale – afferma -. Alcune sono state soccorse, altre sono arrivate in autonomia. Chiudendo al salvataggio a pagare sono coloro che hanno già subito abusi. Tutto questo è inacettabile: siamo arrivati al punto più basso di solidarietà, se anche salvare vite è considerato una colpa, tanto da lasciare le persone in mezzo al mare». (Eleonora Camilli)
9 gennaio 2019