Pena di morte, Ue: nel 2018 almeno 690 esecuzioni

Nella Giornata mondiale contro le sentenze capitali, il Consiglio d’Europa mette in guardia sulle «ricadute sui figli». L’impegno della Comunità di Sant’Egidio

Si celebra oggi, 10 ottobre, la XVII Giornata mondiale contro la pena di morte, istituita proprio per ricordare come questa pratica inumana continui a far parte dell’ordinamento di molti Paesi. E dal Comitato per gli affari legali e i diritti umani del Consiglio d’Europa (CdE) arriva una dichiarazione in cui si mette in guardia sulle «violazioni dei diritti dei bambini i cui genitori hanno ricevuto una condanna a morte o sono stati giustiziati». A fornire lo spunto è la concomitanza con il 30° anniversario della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, datata 20 novembre 1989, che ha spinto la Coalizione mondiale contro la pena di morte ha dedicare la Giornata a quelle che da sempre ne sono vittime invisibili: le figlie e i figli dei condannati a morte. «Questi bambini, spesso dimenticati e socialmente svantaggiati – prosegue la dichiarazione del CdE -, possono subire un trauma in ogni fase del processo che porta all’esecuzione del genitore». Si tratta di un «fardello emotivo e psicologico» che «viola i loro diritti».

A oggi, oltre due terzi (142) dei Paesi del mondo hanno abolito la pena di morte o non l’hanno applicata da almeno dieci anni. Nel 2018 comunque sono state registrate almeno 690 esecuzioni e a fine 2018 oltre 19mila persone erano condannate a morte. Il Comitato denuncia: «Paesi che hanno uno status di cooperazione con il Consiglio d’Europa (Usa, Giordania, Giappone, Marocco, Autorità palestinese e Bielorussia) continuano a emettere condanne a morte e a compiere esecuzioni capitali». E rivolge l’appello a dare «massima importanza all’interesse superiore del bambino» nelle sentenze sui genitori e rispettare il divieto dell’applicazione della pena di morte a chi aveva meno di 18 anni al momento del presunto reato.

Proprio negli Stati Uniti, oltre che in diversi Paesi africani, si muove in questi giorni l’impegno della Comunità di Sant’Egidio, da anni vicina ai condannati a morte nei diversi continenti, che in occasione della Giornata mondiale sceglie di incrementare, fino alla fine di ottobre, le visite nei bracci della morte. «“Di fronte a chi vuole mantenere o addirittura, in alcuni casi, reintrodurre la pena di morte – sottolineano dalla Comunità -, occorre tener vivo, ad ogni livello delle società, delle istituzioni e dei governi, questo grande impegno di civiltà e umanità che ha permesso negli ultimi anni di compiere importanti passi avanti verso la totale abolizione della pena capitale. Segnali incoraggianti vengono dalla California, che ha sospeso ogni esecuzione e smantellato il locale braccio della morte».

Mentre anche la Chiesa americana si è mobilitata per la campagna abolizionista, una delegazione di Sant’Egidio è in questi giorni a Washington per disegnare, insieme ad altre organizzazioni, possibili percorsi di abolizione della pena capitale  negli Stati della federazione in cui è ancora in vigore. «Ci conforta anche la decisione della Corte Costituzionale della Bosnia di chiedere alla Repubblica Srpska di rimuovere dalle sue leggi ogni riferimento alla pena capitale», osservano ancora da Sant’Egidio. Negli ultimi mesi, informano ancora, si è anche confermato l’interesse della società civile per l’abolizione della pena di morte, con un migliaio di persone che si sono rivolte a Sant’Egidio, solo dall’inizio dell’anno, per chiedere di corrispondere con un condannato a morte. Inoltre migliaia di cittadini, in Europa e nel mondo, si sono mobilitati in difesa della vita di alcuni condannati, firmando appelli per fermare alcune esecuzioni.

Anche Acat Italia (Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura), che si batte contro la tortura e la pena di morte, mette l’accento sulla condizione dei figli dei condannati a morte. «Sono loro – spiegano – a subire i contraccolpi maggiori, vedendo violati alcuni dei loro diritti fondamentali. Su di loro pesa inoltre la riprovazione e la stigmatizzazione della comunità di appartenenza e un senso di smarrimento e instabilità legato alla morte di un genitore per mano dello Stato, quello stesso Stato che dovrebbe tutelarli. Un simile evento traumatico – proseguono – è qualcosa che sconvolge le loro esistenze e che si porteranno dietro per tutta la vita». Da Acat arriva comunque l’invito a tutti a «riflettere su queste tragedie private che hanno ripercussioni pesanti sulla vita di bambini e bambine», insieme alla richiesta all’Italia a «continuare a portare avanti, come fatto finora, la battaglia per l’abolizionismo nel mondo insieme agli altri stati membri della Ue».

10 ottobre 2019