Suicidi in carcere: servono interventi profondi di riforma
84 i detenuti che si sono tolti la vita nel 2022 negli istituti italiani: 1 ogni 670. L’urgenza di misure alternative alla detenzione e di interventi che migliorino la vita all’interno
In dodici mesi in Italia si sono tolti la vita 84 detenuti. Uno ogni 5 giorni. Il 2022 per le carceri italiane verrà ricordato come l’anno dei suicidi. Nei nostri istituti di pena, nell’anno appena passato, ci si è tolti la vita circa 20 volte in più di quanto non avviene nel mondo libero. Un detenuto ogni 670 presenti si è ucciso. Il sovraffollamento, dopo la deflazione delle presenze a seguito della pandemia, sta tornando a livelli preoccupanti. I detenuti sono quasi 57mila. I posti 51mila, anche se di quelli conteggiati circa 4mila sono indisponibili: ad oggi, dunque, nelle carceri italiane ci sono circa 9mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare. È quanto emerso anche nell’incontro tra i delegati regionali delle carceri tenutosi a Roma la settimana prima di Natale.
Il carcere ha necessità di interventi di riforma profondi. Occorre innanzitutto incrementare le misure alternative alla detenzione. Ci sono migliaia di persone che potrebbero scontare la loro pena fuori dagli istituti di pena e persone che, per il reato commesso e la loro condizione personale – tossicodipendenza, disturbi psichiatrici e così via – andrebbero prese in carico dalle strutture del territorio, evitando di trasformare le carceri in un luogo dove si rinchiudono le persone che non si è in grado di gestire fuori. Ciò aiuterebbe anche il lavoro del personale – non dimentichiamo anche i 10 suicidi tra le guardie penitenziarie -, che andrebbe incrementato in tutte le funzioni e gratificato dal punto di vista sociale ed economico per il lavoro difficile che svolge.
Andrebbe poi modernizzata la vita interna, garantendo maggiori collegamenti, anche elettronici, con il mondo esterno. Quello all’affettività è un diritto che deve diventare centrale nel sistema penitenziario italiano, fermo da anni. Per quanto non mi sia possibile comprendere e indicare la ragione di un suicidio, ricordo innanzitutto che la maggior parte delle persone che entrano in un istituto di pena hanno alle spalle situazioni già di ampia complessità: marginalità sociale ed economica, disagi psichici e dipendenze. La pandemia ha poi aggravato la situazione, contribuendo in molti casi ad ampliare e acuire situazioni di solitudine e sofferenza. Per chi era già in carcere e ha subito la chiusura di attività e dei contatti dell’esterno per un lungo periodo, ma anche per chi era fuori e arriva alla detenzione con un affaticamento mentale maggiore di quanto non avvenisse presumibilmente in passato.
Cosa fare? Primo: percorsi alternativi alla detenzione intramuraria, soprattutto per chi ha problematiche psichiatriche e di dipendenza; secondo, migliorare la vita all’interno degli istituti, per ridurre il più possibile il senso di isolamento, di marginalizzazione e l’assenza di speranza per il futuro. Vanno in questo senso favoriti interventi che abbiano un impatto positivo su tutta la popolazione detenuta e che possono ovviamente avere un effetto ancora più forte su persone con profonde sofferenze. Ancora, la riforma del regolamento penitenziario, con una maggiore apertura ai rapporti con l’esterno: più telefonate e più colloqui. Andrebbe garantita particolare attenzione al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate. Ogni istituto dovrebbe avere reparti ad hoc per i nuovi arrivati, un servizio di accoglienza strutturato, la fruizione di colloqui con psicologi e/o psichiatri. Non è ammissibile che circa il 75/80 per cento delle persone rientrino in carcere dopo brevi periodi di libertà. O persone da poco uscite muoiano per overdose o non trovino luoghi dove andare a dormire, siano costrette a dormire sotto i ponti e a delinquere per vivere. Troppo spesso ci si dimentica degli articoli 7 e 21 della nostra Costituzione: i detenuti, una volta scontata la loro pena, sono uomini e donne da aiutare ad inserirsi nella società e nel mondo lavorativo. (Lucio Boldrin, sacerdote stimmatino, cappellano nel Nuovo Complesso di Rebibbia)
16 gennaio 2023