Guerra: la poesia profetica di Massari

Nell’ultima raccolta, “Macchine del diluvio”, la stessa tensione febbrile degli esordi nella quale la lingua spezza il pensiero. Una lirica intransigente, priva di lusinghe ma aperta alla tenerezza

Nei giorni crudeli del conflitto in Ucraina, col ritorno di immagini tristemente novecentesche, dalle esecuzioni sommarie ai cadaveri bruciati, una poesia da sempre legata alla guerra (in senso antropologico prima ancora che storico) come quella di Stefano Massari (1969), romano di via Filippo Meda, nel cuore di tenebra del Tiburtino profondo, da tempo emigrato a Bologna dove lavora come film-maker, sembra quasi profetica. Per chi, come il sottoscritto, segue l’autore da quasi vent’anni, le sue parole oggi valgono doppio: «Chi è stata madre urla. chi è stato padre contempla il nulla», dettava nella sua raccolta d’esordio, diario del pane (Raffaelli, 2003), titolo rigorosamente in minuscolo, a sentenziare il dolore senza redenzione dei sopravvissuti di ogni epoca. A cui seguirono i “cieli di ferro” che si stagliavano opachi nel Libro dei vivi (Book Editore, 2006). E poi le ciminiere, le torri, i cantieri vuoti della Serie del ritorno (La Vita Felice, 2009): «Ora che la città crolla, senza sentenza, senza corona…».

Macchine del diluvio (Medusa, 2022), ultima raccolta, tredici anni dopo la precedente, conferma, sin dall’antefatto, la medesima tensione febbrile: «Continuano a cantare le iene ogni giorno che viene / sulle ossa sorvegliate dalle madri piene di gloria / intorno alla casa a guardia che tiene pulita / e prigioniera la storia nel sangue che unisce / la rabbia caduta e quella ancora illesa…». Una volta erano gli amici indimenticabili della gioventù, caduti al termine del secondo millennio, primo fra tutti Gilberto Centi, sotto il cielo opaco e sporco di Pietralata, a imbastire questa tessitura bruciata di nessi analogici distrutti, dove la lingua spezza il pensiero anziché formarlo e così tuttavia ne ricava un’imprevedibile linfa cocciutamente vitale; adesso è una folla di piccoli randagi al cospetto della violenza insita nello scorrere del tempo dentro il nostro stesso corpo a chiedere, magari al posto degli adulti che non ne avrebbero più forse nemmeno il coraggio, udienza e ragione a chi non potrà mai rispondere: «Bambini / che ringhiano il pianto della specie a dio».

Cadono a terra come fantocci soggetti e predicati verbali, scoprendo la verità di chi resta nudo di fronte al male: «L’insanguinata porta i fiori e i fiori / sono promesse di genitori pugni di figli / che si rincorrono con le bestie porte chiuse / battute a sangue alberi ignari senza rancore». Luci sghembe, lanterne fracassate, anelli smarriti, fogli di quaderno appallottolati a terra. È la strada maestra della lirica moderna, troppe volte sfregiata dall’arbitrio oppure compromessa dalle convenzioni di mercato: per restare all’interno di questa pronuncia intransigente, priva di lusinghe ma aperta alla tenerezza, bisogna mantenere i nervi saldi accettando la solitudine destinata a coloro che, come sapeva Albert Camus, hanno deciso di parlare in nome di chi non può farlo.

10 maggio 2022