Kristina Hodgetts, infermiera: «Una volta legalizzata, la morte dilaga»

La testimonianza della donna che per anni ha contribuito a far morire per disidratazione i pazienti. Oggi guida la Coalizione per prevenzione eutanasia

La testimonianza della donna che per anni ha contribuito a far morire per disidratazione i pazienti. Oggi guida la Coalizione per la prevenzione dell’eutanasia

Sensibilizzare e offrire un punto di vista professionale, e insieme umano, su una tematica delicata da osservare da ogni angolazione, per valutarne implicazioni e conseguenze. Con questo obiettivo l’associazione Pro Vita, onlus operante in difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, ha proposto questa mattina, 6 giugno, nella sede della Stampa Estera, la testimonianza dell’infermiera Kristina Hodgetts che per anni ha contribuito a far morire per disidratazione i pazienti prima di accorgersi che «una volta legalizzata, la morte era dilagata».

Canadese, 50 anni, Hodgetts è stata prima infermiera dell’esercito canadese, poi capo infermiera in un dipartimento d’emergenza, infine direttrice degli infermieri in una casa di cura. «Dal dare tutto per salvare i pazienti e ogni singola vita – racconta – si passò all’accelerare i processi di morte, nel modo più efficace, nel modo più sicuro». Per anni Hodgetts svolge il proprio lavoro convinta, in buona fede, di agire per il meglio, «per ridurre il dolore»; un dolore che oggi definisce «composto: fisico, psicologico, sociale e spirituale», ed è dell’insieme delle parti «che bisogna farsi carico, guardando al paziente come ad una persona».

Davanti al caso di un’anziana, nell’infermiera sorge il primo dubbio. «La signora, per la quale erano stati sospesi i trattamenti, non voleva mollare»: succhiava ogni goccia d’acqua dalla spugna posta sulla sua bocca come sollievo. Quella paziente impiegò nove giorni per morire «ed io in quell’occasione rimasi molto colpita dalle parole di una collega: “Che cosa stiamo facendo?”», ricorda commossa. Poi un’altra donna, colpita da un lieve ictus: «Una figlia disperata – ricorda Hodgetts -, un figlio, unico fiduciario, che avalla la fine: la ragazza rimase al fianco della madre finché i polmoni non affogarono nella morfina».

A quel punto Hodgetts si ribella, perde il lavoro e teme di avere posto fine alla sua carriera invece è un’altra la dura prova che la attende: «Ebbi un ictus – racconta – e mi ritrovai dall’altra parte, su un letto, in coma. Non fosse stato per mio marito, i medici avrebbero scelto per me la morte dolce». Dopo il risveglio, l’infermiera, nonostante la paresi parziale, inizia la sua missione di testimonianza dando vita alla Coalizione per la prevenzione dell’eutanasia, di cui è vicepresidente: «I pazienti ci affidano la loro vita – ammonisce concludendo -, non possiamo togliergliela».

Un racconto intenso, quello dell’infermiera, che offre spunti di riflessione in merito al disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati lo scorso 20 aprile sulle norme in materia di «consenso informato e dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari al fine di evitare l’accanimento terapeutico», le cosiddette Dat. «Il paradosso di questa legge – spiegato Toni Brandi, presidente di Pro Vita – si palesa fin dalle premesse: nessuno di noi ha la sfera di cristallo per stabilire con anticipo come reagirà di fronte a una malattia grave o ad una disabilità». L’analisi tecnica sulle criticità insite nel decreto legge in questione è affidata al portavoce di Pro Vita Alessandro Fiore: «Fondandosi sul diritto all’autodeterminazione – spiega – esso pone in secondo piano un diritto primario sancito dalla nostra Costituzione, ossia il diritto alla vita».

6 giugno 2017