L’esule Czapski e “La terra inumana”

Nel libro-fondamento di uno dei più grandi testimoni del XX secolo, il ricordo degli anni più importanti della sua vita, quando contribuì alla formazione dell’esercito polacco in terra sovietica

L’esistenza di Józef Czapski, uno dei grandi protagonisti e testimoni del ventesimo secolo, trascorse quasi tutta in esilio. Nato nel 1896 a Praga da una famiglia nobile di origine slavo-germanica, sin da bambino parla francese e polacco con le governanti, ma capisce il tedesco dei genitori. Si forma a Pietroburgo, abita per qualche tempo a Cracovia e Varsavia, la sua patria etnica, muore nel 1993 a Parigi. Ricaviamo queste informazioni dalla preziosa postfazione che Andrea Ceccherelli ha posto a La terra inumana (Adelphi), tradotto insieme a Tullia Villanova, il libro-fondamento di Czapski, pubblicato per la prima volta nel 1949. Un’opera nella quale egli rievoca i tre anni più importanti della sua vita, dal ‘43 al ‘45, quando contribuì alla formazione dell’esercito polacco in terra sovietica, all’indomani dell’accordo che Stalin aveva siglato con Władysław Sikorski.

Nell’agosto del 1939 il patto Molotov- Ribbentrop aveva stretto in una morsa la Polonia che infatti il mese successivo venne invasa dall’esercito sovietico insieme a quello nazista. Czapski fu catturato insieme a 200.000 soldati dopo essere scampato per un soffio al massacro di Katyn’, a 20 chilometri da Smolensk, il criminale eccidio di ventiduemila ufficiali e intellettuali polacchi che i sovietici attribuirono ai nazisti fino al 1990 quando infine furono costretti ad ammettere la loro responsabilità. La moltitudine dei prigionieri polacchi venne deportata nei gulag. Quando nel 1941 Hitler attaccò l’Unione Sovietica, Stalin volle recuperare questi prigionieri per gettarli come carne da macello nella mischia antinazista: calcolo cinico che non ottenne l’esito sperato. Eppure, appena si diffuse la notizia che il generale Anders, leggendario e indomito condottiero, le cui spoglie riposano nel cimitero di Montecassino, avrebbe guidato la marcia, molti reduci parvero rianimarsi e, nella comprensibile speranza di sfuggire alla reclusione, corsero ad arruolarsi in massa.

Józef Czapski, dopo essere stato egli stesso liberato dai campi di prigionia, partecipò all’impresa di ricomporre l’esercito frantumato. Durante quei giorni terribili egli redasse una serie di appunti nei quali racconta i suoi viaggi nell’Unione Sovietica: una terribile odissea nelle retrovie della guerra, fra convogli di uomini disperati, spesso ai limiti delle forze, i quali cercano in tutti i modi di sopravvivere senza cibo nel gelo e nelle privazioni. A colpire nel suo resoconto, che quando si arriva in Uzbekistan e Tagikistan diventa anche un’analisi storica e antropologica di notevole acume, è l’equilibrio prospettico che gli consente di distinguere, nella bolgia in cui si trova, fra il regime comunista, cieco e totalitario, e l’anima slava, smarrita per sempre nelle poesie di Andrej Belyj, poeta simbolista ripudiato dai governanti con la Stella Rossa: «Russia, Russia, Russia, / Messia dei giorni che verranno».

12 giugno 2023