«Quello che non va in questo Reddito di cittadinanza»

Mentre con fatica si delinea l’ambito della misura, arrivano i primi preoccupati giudizi degli studiosi che più conoscono il tema della povertà. L’invito a fermarsi e a fare uno «sforzo progettuale più serio»

Il Reddito di cittadinanza così come lo sta pensando il governo non è adatto a combattere la povertà assoluta e dichiarare finita l’esperienza del Rei (il Reddito di inclusione avviato dai governi nella passata legislatura) si rivelerà un errore. Mentre ancora si fa fatica a conoscere nel dettaglio tutti i criteri del Reddito di cittadinanza, che sarà regolato nelle prossime settimane, iniziano ad arrivare prese di posizione preoccupate da parte di quegli studiosi che più di altri si sono nel passato recente occupati di lotta alla povertà assoluta e di strumenti per portarla a termine.

In un editoriale pubblicato sulla prima pagina del Corriere della Sera, interviene con un giudizio netto Maurizio Ferrera, ordinario di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Milano. La sua non è una stroncatura dello strumento in quanto tale, anzi: il contrasto agli svantaggi sociali e l’idea che i poveri vadano aiutati è corretta, e «letto su questo sfondo il reddito di cittadinanza non suscita perplessità», anche perché «misure simili esistono in tutti i Paesi Ue». Eppure, dice Ferrera, «la riforma non convince», perché ad essere «non condivisibile» è proprio l’impostazione di base. «Così come attualmente progettato (per quanto si riesce a capire) il reddito di cittadinanza aggira tutti i problemi da cui dipende il fenomeno povertà nel nostro paese e punta solo sull’ultimo passo: il sussidio». Un «salto della rana», scrive Ferrera, che «rischia di condurre a un serio fallimento». Il docente spiega che negli altri paesi la quota di poveri è più bassa che in Italia perché viene «combattuta a monte», con una serie di politiche apposite. Da noi questi tasselli del sistema del welfare sono «inadeguati o addirittura mancanti»: occorrerebbe agire su questi versanti, invece di scaricare «tutte le tensioni su un’unica prestazione» come il reddito di cittadinanza. Che peraltro – altro errore di impostazione – viene presentato come «strumento di inserimento lavorativo».

A chi dice che non si può tornare indietro perché il reddito di cittadinanza è stata una promessa elettorale dei Cinque Stelle, Ferrera replica che «non è così: non hanno promesso affatto questa specifica impostazione e queste specifiche modalità di attuazione». Hanno invece «preso l’impegno a contrastare seriamente la povertà, non a improvvisare una riforma senza capo né coda». E andrebbe ascoltato allora chi chiede «una pausa di riflessione, uno sforzo progettuale più serio e approfondito», nel frattempo rafforzando il Rei.

Preoccupato è anche il ragionamento di Cristiano Gori, docente di Politiche sociali all’Università di Trento, ideatore e coordinatore scientifico di quell’Alleanza contro la povertà che in questi anni ha lungamente dialogato con la politica per giungere ad una misura universale di contrasto alla povertà. «Chi dice – scrive in un intervento su LaVoce.info – che a giocarsi molto sul reddito di cittadinanza sia il Movimento cinque stelle dimentica qualcuno: i poveri. Siamo infatti in una fase decisiva innanzitutto per loro, poiché è irreale aspettarsi nei prossimi anni un’altra legge di bilancio con una dotazione per la lotta alla povertà paragonabile a quella in via di definizione”. Oggi insomma “si presenta un’occasione unica per rafforzare il nostro welfare».

E però, nel concreto, di dolenti note – o di «rischi», come li chiama Gori – ce ne sono parecchi. Il primo è quello di «confondere le politiche contro la povertà con le politiche per il lavoro». Le misure contro la povertà assoluta, che interessa in Italia quei 5 milioni di individui che stanno peggio di tutti, non hanno come obiettivo principale – argomenta Gori – quello di «incrementare direttamente l’occupazione, bensì di contrastare la povertà nelle sue molteplici sfaccettature (economiche, relazionali, familiari, lavorative, psicologiche, abitative e così via)». Negli altri paesi europei (dove i centri per l’impiego funzionano assai meglio e la disoccupazione è più bassa) solo a un beneficiario su quattro si riesce a trovare un’occupazione stabile.

«Il pericolo – sintetizza Gori – è che quelle contro la povertà vengano trasformate in politiche per il lavoro, da indirizzare invece a persone disoccupate, ma non in povertà assoluta, che generalmente hanno maggiore occupabilità. Una simile scelta danneggerebbe, innanzitutto, i poveri di oggi, privandoli di quell’insieme di risposte di cui l’inclusione lavorativa è solo una parte». Si finirebbe cioè per dare priorità non agli ultimi (cioè ai più poveri) ma ai penultimi (persone certamente in situazione di disagio, ma non in povertà assoluta): rischio insito anche nella scelta di prevedere un sussidio anche per i pensionati: «Benché anche tra loro vi siano sacche di indigenza da combattere, gli anziani sono coloro che meno soffrono la povertà in Italia, dove il fenomeno aumenta progressivamente al ridursi dell’età. Investire in modo significativo sulle pensioni di cittadinanza – scrive Gori – significherebbe farlo a discapito di chi è in povertà assoluta». Mentre «il criterio più equo da seguire consiste nell’assegnare priorità a chi sta peggio, al di là dell’appartenenza a specifiche categorie».

Purtroppo, concordano a distanza i due studiosi, nell’orizzonte politico di breve termine ci sono le elezioni europee del maggio 2019: «La posta in gioco – scrive Ferrera – è troppo importante per ridurla a una questione di consenso in vita delle elezioni». «L’avvicinarsi delle europee – gli fa eco Gori – potrebbe spingere a introdurre con troppa fretta risposte nuove, ma deboli, dimenticando i tempi più lunghi richiesti da interventi realmente riformatori. Ma se è certo che le elezioni passeranno, da decisioni di questa natura sarebbe impossibile tornare indietro».

19 ottobre 2018