Misericordia e Carità

Le due forme d’amore come le braccia di una croce: quello verticale, che porta con sé l’amore divino; quello orizzontale, che si effonde fra gli uomini

Le due forme d’amore come le braccia di una croce: quello verticale, che scendendo dall’alto porta con sé l’amore divino; quello orizzontale, che si effonde fra gli uomini

Parlare di Misericordia e di Carità non è una cosa semplice, non per la cosa in sé ma per l’uso lessicale che, nel nostro modo di parlare e intendere, viene fatto delle due parole. Già all’inizio di questo percorso sulla misericordia abbiamo dovuto fare riferimento ai termini biblici circa la misericordia; parlare ora della relazione tra misericordia e carità chiede dei chiarimenti sulla parola “carità”. A differenza del termine “misericordia” che trova la sua radice significativa nell’ebraico (vedi i primi due articoli), il termine “carità” fa riferimento a più significati nelle principali lingue usate dalla bibbia (ebraico e greco) e nel latino.

Il termine ebraico che viene usato per indicare la “carità” è zedaqah, che si riferisce alla parola zaddiq che indica il “giusto”. La zedaqah fa riferimento alla giustizia, sociale e di Dio: in senso religioso essa è la donazione verso l’altro di ciò che questi ha bisogno per ritrovare la sua dignità ed autonomia. Alla zedaqah sono obbligati tutti, ricchi e poveri, è una delle forme di amore più alte per il prossimo perché attraverso di essa si fa giustizia, si restituisce la dignità umana e sociale, non deve essere tesa solo a soddisfare un bisogno temporaneo ma, quanto più possibile, mettere in condizione l’altro di rendersi autonomo: in questo senso la zedaqah ha un legame stretto con quel Giubileo che perdona e restituisce, consente un nuovo inizio, ricostruisce nella dignità (vedi l’articolo sul “tempo favorevole”).

Il termine “carità” trova poi la sua radice essenzialmente nel latino “caritas” (affetto, benevolenza) e dal suo sostantivo “carus” (costoso, prezioso,caro, diletto, amato). Il termine latino esprime meglio ciò che siamo abituati a pensare sulla carità, anche se bisogna sottolineare fortemente l’aspetto della prossimità, di un qualcosa che scatta per rendere prossimo l’altro, lo fa amare, scegliere, curare e vedere come una gemma preziosa, un tesoro: aspetti questi che nell’uso odierno della parola “carità” vengono considerati poco se non addirittura tralasciati, a favore di un “fare la carità” che si limita a dare qualcosa, denaro, cibo, vestiti o tempo che sia.

Il termine greco charis (grazia) fa poi riferimento a un altro aspetto importante della carità: l’essere dono assolutamente gratuito, forma altissima di amore, tanto che è riferita all’azione libera di Dio ed alla sua volontà di salvare gli uomini, concretizzata nelle sue libere azioni in forma personale per entrare in comunione con gli uomini stessi.

Normalmente siamo abituati a usare questo termine in maniera piuttosto riduttiva, o ad averne un concetto piuttosto ristretto, tanto che persino l’uso come sinonimo della parola “amore” è andato un poco in disuso: pochi di noi userebbero questa parola per parlare di amore, o descrivere sentimenti di amore verso qualcuno. Il concetto che abbiamo della carità propende più verso la pietà o l’elemosina, e posso immaginare quali lampadine si accendono oggi quando leggiamo “Dio è Carità” (1Gv 4,16) senza tradurre “carità” con “Amore” o come nell’originale greco “agape”. Ciò che qui preme sottolineare è l’affinità della carità con la misericordia, mantenendo la giusta distinzione tra i due per un uso completo e complementare, nella vita pratica e nella riflessione spirituale che anima le nostre azioni, evitando riduzioni e complicazioni che renderebbero incomprensibile o difficile capire bene di cosa stiamo parlando.

Possiamo quindi riflettere sulla carità e sulla misericordia in senso biblico e cristiano, immaginando le due forme d’amore come le braccia di una croce: il braccio verticale, la misericordia, che scendendo dall’alto porta con se il nucleo dell’Amore divino, del sentire materno e paterno di Dio, quel portare dentro nelle proprie viscere, con amore e fedeltà, i propri figli, e a cui i figli sono chiamati a rispondere elevando il proprio amore, per quanto più è possibile (vedi articolo sulla misericordia ed amicizia, la risposta di Pietro a Gesù Risorto), verso l’Amore totale, agapico, della Trinità stessa. Il braccio orizzontale, la carità, è quell’amore che si effonde fra gli uomini e per gli uomini, che trova il suo centro nell’incontro con la misericordia. Un amore che è invitato non alla gerarchia ma all’uguaglianza, alla giustizia; un amore che si fa prossimo a tutti e guarda tutti come tesori preziosi; un amore che non si accontenta del minimo ma, con le sue azioni, dice a tutti “mi sei caro, ti ho messo nel mio cuore!”. Anche questo non è un amore che procede solo dal centro verso le periferie, ma segue anche un movimento verso il centro dove c’è, di nuovo, quell’incontro col braccio della Misericordia che dà senso a tutto il suo procedere.

Come ogni croce non esisterebbe se gli assi non si incontrassero, così carità e misericordia non possono dare forma all’Amore divino se non si incontrassero in un punto preciso e dessero forma all’Amore stesso. La bellissima parabola del Samaritano (Lc 10,25-37) esprime bene questo movimento a croce tra la Misericordia e la Carità: tutti i protagonisti si trovano su una strada particolare, percorsa per motivi particolari, è la strada che sale e che scende da Gerusalemme. Certo, tutte le strade in Israele che vanno e vengono da Gerusalemme si dice “salgano e scendano”, ad indicare quei movimenti di grazia e salvezza che procedono da Dio e tornano a Dio. Ogni pellegrinaggio lo è, ma lo era in maniera particolare quello del popolo di Israele al tempo di Gesù, che andava e tornava dal Tempio di Gerusalemme, la dimora di Dio, il centro della vita di ogni pio israelita, il cuore di ogni precetto nel rapporto con Dio. Ma, si sa, le strade, anche le più “sante”, nascondono le insidie del male e della morte e può capitare che, assaliti dai briganti, si resti feriti e morenti proprio in mezzo a quella strada. Lo smarrimento è grande come grande è la paura: “Che misericordia è questa, doveva capitare proprio a me?”. Si rimane incastrati in un incrocio (era li che i briganti attaccavano e poi scappavano) aspettando di morire, o che qualcuno passi con un “resto” di misericordia delle preghiere fatte al Tempio di Gerusalemme e si muova a pietà.

Il sacerdote e il levita che di là scendono, dopo il loro onorato servizio e le lunghe preghiere, non hanno tempo per nessuna “cura”, la misericordia divina che hanno invocato, magari intonando in maniera sublime il grande “hallel”, il salmo 135 ( Eterna e la sua Misericordia!), non è bastata per avvicinarli al prossimo affinché questi gli fosse caro, vicino. Il loro cuore è rimasto inerte e non ce la fa a donarsi, così la loro storia finisce lì, in un’occasione mancata per donare ciò che avevano invocato, per capire in maniera fattiva, operativa, il cuore che Dio aveva cercato di dare loro e che loro non avevano accolto. Ma la misericordia scende copiosa, e prende il cuore di chi nel tempio di Gerusalemme non c’era mai entrato e mai ci sarebbe entrato, un samaritano, che percorreva quella strada per altri motivi ma che quel giorno sarebbero diventati motivi di misericordia. Il samaritano si fa prossimo e guarda il prossimo, mette nel cuore l’altro e se ne prende cura; non c’è un pubblico a giudicarlo o guardarlo, siamo nel deserto, egli lo fa perché entra nei sentimenti dell’altro e ne prova compassione. Nel centro di quella strada prende la direzione orizzontale della carità che, sia per il ferito che per lui, diventano misericordia operativa: “Ecco Dio ha misericordia di me!”, dirà finalmente il ferito, “Ecco Dio fa misericordia con me!” dirà il samaritano.

Non sappiano come e quando il samaritano è ritornato alla locanda per trovare il ferito, ma sappiamo che l’amore, la carità, fra un pio Israelita che tornava dal Tempio e un eretico Samaritano (così erano giudicati i samaritani dagli Israeliti) che veniva dalla stessa parte, ci ha regalato uno dei più bei passi sulla misericordia di Dio per capire Dio stesso, l’Amore che salva, la forza e la bellezza che scaturiscono sempre nell’incontro tra la misericordia e la carità, anche se avvengono al centro di un crocevia, di una croce, con persone diverse ma sulla stessa strada di misericordia e che riescono a trasformare quella strada in amore operativo, concreto, liberando il concetto di misericordia stesso dalle gabbie dell’evanescenza, incarnandolo nell’umanità.

Questa parabola ci permette di capire anche una cosa fondamentale sulla misericordia e sulla carità: anche se esse possono esistere una senza l’altra, se non incrociano le loro strade rimangono concetti sterili (sola misericordia?) o azioni fine a se stesse (sola carità?). Possiamo scrivere libri sulla Misericordia, ma se non le facessimo incontrare l’amore che agisce, essa sarebbe solo un’esercizio pseudo-spirituale, una riflessione e basta, utile a nessuno, dispersa in un incrocio di strade per poi proseguire oltre. Possiamo fare innumerevoli atti di carità ma se essa non incontrasse la misericordia tutte le opere resterebbero fine a se stesse, piccole soddisfazioni da raccontare che non direbbero nulla di quell’Amore che salva, cure palliative, cerotti da mettere a un ferito in mezzo alla strada per poi lasciarlo lì dov’è a morire!

Anche in questo caso è difficile dare le dimensioni precise su come intendere esattamente questo rapporto, essendo, in una certa misura, il rapporto tra la carità e la misericordia parti di un mistero che ci supera di grande misura. Mistero che, come amo ricordare, non è impossibilità di comprensione ma bellezza stupefacente di un Dio che ama immensamente e al cui cospetto non possiamo che balbettare l’estasi meravigliosa. Estasi che San Paolo fa sua nell’inno alla carità (1Cor 13,1-13), e con cui prova a descrivere come essa sia la giusta e unica mediazione della molteplice misericordia di Dio che si presenta agli uomini (pazienza, umiltà, rispetto, temperanza, giustizia, sopportazione …), mediazione, quella della Carità in sé, unica e imprescindibile con il ruolo di regina, anche nelle tre virtù teologali, non per imposizione ma per diritto di essere perché, ancora una volta, dobbiamo ricordarci che l’Essere stesso di Dio è Carità, Amore, e se non fosse così neanche la sua misericordia troverebbe senso presso di noi, e noi non troveremmo senso nella speranza di una vita eterna dove l’unica ragione d’essere, per tutti, è e sarà solo l’Amore!

23 febbraio 2016