“Con me e con gli alpini”, la grande guerra e le emozioni di Jahier

Un breviario militare di taglio sottilmente conradiano, che contiene il sogno di un’altra vita, con un ritmo incandescente fra prosa e poesia

Compie cento anni uno dei libri più belli e commoventi della letteratura italiana: “Con me e con gli alpini”, di Piero Jahier, uscito al termine della grande guerra nei quaderni della “Voce”, ultima edizione importante: quella della Claudiana (pp. 95, 10 euro). Un’opera che ci riporta ad una stagione di assoluto amore vitale, dopo «l’inutile strage», secondo l’espressione di Benedetto XV, consumata sulle montagne innevate e impervie da uomini spesso inconsapevoli, come i soldati descritti nel diario del tenente trentenne, scrittore fra i meno facili da incasellare per la doppia tensione lirico-narrativa e la tempra fortemente religiosa che gli derivava dal padre, pastore valdese morto suicida. C’è il sogno di un’altra vita in questo breviario militare di taglio sottilmente conradiano (pensando al Jahier traduttore dei “Racconti di mare e di costa”), con un ritmo incandescente fra prosa e poesia: capitoletti brevi composti in punta di penna, tesi a consegnarci l’emozione ancor prima dell’idea.

L’incontro fra il giovane ufficiale e i suoi indimenticabili sottoposti, poveri contadini delle valli limitrofe al campo di addestramento nel bellunese, è memorabile: quegli individui semplici e genuini insegnano all’artista in formazione valori che lui, prima di conoscere il suo plotone, avrebbe dato per scontati: l’abitudine alla rinuncia, la forza sorprendente della privazione, il brivido della coralità e l’etica del lavoro. L’intellettuale spezza le proprie convinzioni nel rapporto quotidiano con gli alpini di cui diventa, non senza ricevere aspre critiche da parte dei superiori, una specie di fratello maggiore, in una prospettiva pedagogica nuova: «Non la risposta alle interrogazioni, ma quello che sentono e dicono tra loro è prezioso sapere».

E cosa esprimono, nel dialetto veneto, questi ragazzi? Ecco lo scorcio di una canzone intonata durante la marcia: «O Tirolesi, mandéme a casa che la campagna mi go terminà». È il richiamo tolstojano al rispetto dei ritmi naturali che i conflitti bellici offendono e distruggono. Rappresentante unico di tale schiera di eroi umili, entrato negli annali dei personaggi novecenteschi, è Somacal Luigi, «cretino alla nascita e manovale fino alla chiamata», l’ultimo degli ultimi, che non sa sparare col fucile perché incapace di chiudere un occhio solo; così al poligono glielo devono bendare. È lui che riassume il senso profetico del testo di Jahier, pronto a scoprire in un calendarietto tedesco alcune affermazioni di taglio ungarettiano su cui invita il lettore a riflettere: «La guerra fa povertà», «L’umiltà fa pace». Come se il nemico mostrasse, nei suoi tratti distintivi, qualcosa che lo avvicina a noi.

Resta nell’opera una vibrazione espressiva indimenticabile, certo frutto dei tempi e da contestualizzare, soprattutto nella tonalità retorica antidannunziana, quasi il rovescio della propaganda cieca e tronfia ma ancora attuale nell’auspicio di un’azione disinteressata, sottratta alla necessità del riscontro immediato. Pur accettando l’ubbidienza e la disciplina, Jahier ci spinge a puntare sull’uguaglianza e la fraternità. Non senza mettere in conto le inevitabili sconfitte, fino a indicarci, con enunciazione drammatica assai calibrata, un programma evangelico rivoluzionario: «Ma tu ricordati di fare il bene con disperazione». Vale a dire: «Il bene deve essere abbandonato, a ogni costo, a qualunque opinione».

8 aprile 2019