Il “metodo Sant’Egidio”, al servizio della pace

La diplomazia della Comunità trasteverina raccontata in un libro edito da San Paolo. Il fondatore Riccardi: «Impegno internazionale nasce come prolungamento dell’azione umanitaria, perché la guerra è la madre di tutte le povertà»

«Fare la pace non è mai un successo completo, non c’è mai un risultato finale ma è un continuo processo. Portare pace tra gli uomini è una vocazione che Sant’Egidio ha accolto e a cui è rimasta sempre fedele. Il mondo avrà sempre bisogno di pace e oggi più che mai la Comunità è in grado di rispondere con generosità, fede e speranza al nostro bisogno di pace». Così l’arcivescovo Paul Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede, ha parlato del libro “Fare pace. La diplomazia di Sant’Egidio” (ed. San Paolo) che è stato presentato ieri sera, giovedì 7 marzo. Il “ministro degli esteri” vaticano ha ricordato la sua esperienza di nunzio in Burundi e Guatemala che lo ha portato a conoscere direttamente situazioni che hanno visto anche l’intervento di Sant’Egidio ma non è mancata una domanda della moderatrice Maria Cuffaro sulla situazione del Venezuela e sul possibile ruolo della Santa Sede, anche attraverso il “metodo Sant’Egidio”. «La Santa Sede è sempre disponibile a qualsiasi iniziativa che dimostri buona volontà, sincerità e voglia di dialogo – ha risposto l’arcivescovo -. Al centro deve esserci il bene del popolo venezuelano. Bisogna raddoppiare gli sforzi per trovare una soluzione che porti pace e venga incontro alle esigenze della popolazione».

Qual è dunque questo “metodo Sant’Egidio”? Le definizioni sono state tante. Una l’ha fornita il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani che ha parlato di una forma di «sussidiarietà della diplomazia: fa quello che la diplomazia non fa, e forse non deve fare, puntando sulle relazioni tra persone». Esemplare, in questo senso, il caso Mozambico, principale successo della “piccola Onu di Trastevere”: «Sconfiggere l’ideologia è difficile – ha sottolineato Tajani – mentre le barriere tra persone si possono abbattere». Il presidente ha ricordato anche il ruolo della Comunità in Albania, dove si impegnò in prima persona monsignor Paglia, e ha fatto riferimento al fenomeno migratorio: «Neanche l’esercito romano ha fermato le invasioni barbariche – ha detto con una battuta -. Si deve investire e lavorare in Africa, non con lo spirito dei cinesi, che lo fanno per business e forse per scopi militari, ma con una sorta di piano Marshall. L’Europa deve investire almeno 50 miliardi, la politica deve fare molto, ma c’è grande spazio anche per la diplomazia sussidiaria di Sant’Egidio. Serve l’azione dell’intera Unione, che anche l’Onu si svegli, e magari che gli americani investano invece di isolarsi».

Mentre il direttore dell’Espresso Marco Damilano ha citato una frase del fondatore della Comunità Andrea Riccardi («Gli uomini di Sant’Egidio sono pacificatori non pacifisti, cercano quello che unisce e mettono da parte quello che divide, come diceva san Giovanni XXIII»), Paolo Gentiloni ha elogiato «da romano ed ex ministro degli Esteri» la «straordinaria esperienza di Sant’Egidio». Qual è il segreto? L’ex presidente del Consiglio ha ricordato «flessibilità politica e amore per il compromesso» di chi «ha cercato di costruire la pace con la diplomazia informale». Un lavoro che si basa «in parte sulle professionalità descritte nel libro» e poi su «quella che Riccardi chiama “rappresentare una forza debole” perché non hai un obiettivo nascosto ma credi al dialogo, al compromesso, alla pace come valore in sé». Senza dimenticare che essere considerati «non Chiesa ma parte della Chiesa conta moltissimo. Come pure il fatto di essere italiani: con tutti i suoi difetti, e una politica estera attuale piuttosto insolita, aiuta a svolgere quel ruolo di diplomazia informale».

A tirare le conclusioni è stato Riccardi, dopo aver precisato l’origine della definizione di «terza sezione» della Segreteria di Stato vaticana, attribuita a Sant’Egidio da san Giovanni Paolo II durante una cena sulla crisi in Algeria del 1992. «L’impegno internazionale nasce come prolungamento dell’attività umanitaria. Non abbiamo mai smesso di lavorare con i poveri perché la guerra è la madre di tutte le povertà», ha detto il fondatore ricordando il «dramma di un Paese distrutto dalla guerra come il Mozambico»: una mediazione che «ha reso noto Sant’Egidio come soggetto particolare, internazionale». Quanto al “metodo Sant’Egidio” ha fatto riferimento all’incontro di Assisi del 1986 che «vuol dire forza del dialogo e delle religioni, di una speranza che viene dalla preghiera». Tuttavia, questo libro «non è per vendere Sant’Egidio, perché racconta anche gli insuccessi» come quelli in Algeria e in Kosovo. Infine, ha ricordato che «essere parte della Chiesa è fondamentale ma non significa essere il braccio del Vaticano» e ha concluso citando le parole del cardinale Bergoglio: «La pace è un lavoro artigianale».

8 marzo 2019