«Il richiamo della foresta», la magia dell’incipit

Torna “Jack London” in una nuova traduzione di Michele Mari. Bastano le prime righe per catturare l’attenzione dei ragazzi

Torna “Jack London” in una nuova traduzione di Michele Mari. Bastano le prime righe per catturare l’attenzione dei ragazzi

Dopo una vita trascorsa a insegnare l’italiano a ragazzi che molto spesso non avevano mai letto un libro in vita loro, ho imparato a riconoscere i romanzi capaci di catturare l’attenzione di questi scolari riottosi, pronti a rifiutare il sistema di valutazione da cui sono stati respinti. In verità non vi sarebbero poi tanti titoli da segnalare, quei pochi vanno quindi considerati un tesoro inestimabile. Nel piccolo gruppo è d’obbligo citare Il richiamo della foresta di Jack London, ora disponibile in una nuova splendida traduzione di Michele Mari (Bompiani, pp.138, 10 euro).

Mi basta riprendere il fantastico esordio per rivedere scorrere davanti a me le facce degli studenti ai quali per anni l’ho proposto: «Buck non leggeva i giornali, altrimenti avrebbe saputo che stavano arrivando grossi guai, non solo per lui, ma per qualsiasi cane muscoloso avvezzo all’acqua e coperto di un lungo e caldo pelo vivesse fra lo Stretto di Puget e San Diego. Perché gli uomini, brancolando nella tenebra artica, avevano trovato il metallo biondo…». Era sufficiente arrivare sin qui per tenerli in pugno.

Subito Romoletto toglieva lo sguardo dal cellulare, Valerio si staccava gli auricolari, Claudio non rideva più; Hafiz, soprattutto lui, giovane afghano giunto a piedi in Italia, si metteva in posizione di ascolto. A partire da quel momento, non c’era bisogno di fare altro. Bisognava solo continuare a leggere, fermandosi al termine di ogni capitolo per scrivere sui quaderni le brevi sequenze riassuntive. Dalla confortevole tenuta del giudice Miller al rapimento improvviso e allo scontro violento con l’uomo dal maglione rosso, dalla comparsa di Francois e Perrault alla sfida vittoriosa con Spitz, fiero avversario nella muta lanciata a tutta forza verso il grande Nord, fino all’incontro con John Thornton e alle incredibili imprese compiute insieme a lui, le avventure di quel magnifico animale, figlio di un San Bernardo e di una cagna scozzese, tenevano banco in un paesaggio innevato di fiumi e miniere, boschi e montagne, luridi accampamenti nelle pianure desolate e fangosi sentieri diretti verso il nulla.

Le ultime scene, quando il cane lupo fa amicizia con un fratello silvano e seguendolo penetra nel folto della vegetazione, nel regno misterioso del serpente e della pantera, là dove si nasconde, oscuro e temibile, il segreto della medesima energia da cui ricava alimento, ci facevano entrare in un altro mondo. Come dimenticare il finale? Buck, svegliato da un delirio febbrile, torna dai suoi vagabondaggi e, dopo aver scoperto il cadavere di Thornton ucciso dagli indiani, si vendica compiendo un massacro e conquista sul campo il diritto di guidare un branco di compagni guerrieri.

Quella non era più scuola, i voti e le interrogazioni parevano distanti mille miglia, ma pura esistenza, distillata sul collo dei miei adolescenti inquieti come un liquore aspro in grado di farli diventare più grandi di quanto loro stessi non avrebbero mai creduto.

 

21 dicembre 2015