Le domande aperte di Julian Barnes

In “Niente paura” – pubblicato da Einaudi nella traduzione di Daniela Fargione – un geniale brogliaccio sul sentimento del tempo che sfugge dopo i 60 anni, quanti ne aveva l’autore quando lo compose

In Niente paura (Einaudi, traduzione di Daniela Fargione) di Julian Barnes (Leicester, 1946) a un certo punto leggiamo di una conversazione avvenuta fra Isaac Singer e Edmund Wilson a proposito di esistenze ultraterrene. Il critico letterario pare abbia affermato di non aver alcun desiderio di sopravvivere. «Grazie tante», ecco la sua aggiunta conclusiva, come cercando una sprezzatura. Al che lo scrittore, con uguale intento ironico, avrebbe replicato: «Se è stata prevista una sopravvivenza, non avrai molta scelta».

Tale sarebbe l’obiezione di fondo che anche noi oggi potremmo fare al pronunciamento agnostico di Barnes, tutto centrato sull’ossessione della morte, al punto di poter essere definito una “tanatoenciclopedia”, se non fosse appunto già presente nel testo, quasi per sventare l’osservazione. Ma in realtà il costante “understatement” di questa autofinzione, pubblicata nel 2008, secondo il modello narrativo preferito sin dai tempi del Pappagallo di Flaubert (1984) – nella quale emerge come in un diario, stilisticamente smagliante, un esibito scetticismo («Sentire la mancanza di Dio è per me come essere inglese, un sentimento che provo perlopiù sotto attacco») -, è stato in seguito non dico scalfito ma forse ricalcolato, nelle opere venute dopo, a partire dal Senso della fine, uscito nel 2011 («All’improvviso mi sembra che una delle differenze tra la gioventù e la vecchiaia potrebbe essere questa: da giovani ci inventiamo un futuro diverso per noi stessi; da vecchi, un passato diverso per gli altri»), e poi soprattutto nella terza potente sezione di Livelli di vita (2013), dedicata alla precoce improvvisa scomparsa dell’amata consorte: «L’amore può anche non portarci dove pensiamo o speriamo ma, comunque vada, dovrebbe renderci più responsabili e veri».

Con la suddetta luce retrospettiva leggiamo quindi Niente paura (Nothing to be Frightened of era il titolo originale) alla maniera di un geniale brogliaccio sul sentimento del tempo che sfugge dopo i sessant’anni, quanti ne aveva Barnes quando lo compose, con stupendi medaglioni in omaggio ai maestri preferiti, le cui tombe, specie parigine, egli non manca di visitare, da Montaigne a Renard, da Flaubert a Cechov, da Stendhal a Philip Larkin, il quale spirò nell’ospedale di Hull all’1.24 di notte, «un’ora tipica per morire», pronunciando le sue ultime parole a un’infermiera che gli teneva la mano: «Vado verso l’inevitabile». Non si cerchino, in ultima analisi, risposte definitive. Restano solo due domande, aperte e scintillanti come conviene al post-modernismo nel quale i manuali letterari incasellano lo scrittore: «Rendersi conto che, dal punto di vista del pianeta con sei miliardi di anni ancora a venire, noi non siamo un granché rispetto alle amebe, rende più facile accettare la nostra mancanza di libero arbitrio? E se così è (ma anche se non è), tutto questo rende più facile il morire?».

26 aprile 2022