“La Buona Scuola”, parlano i docenti: «Progetto fumoso»

Le voci sulla riforma lanciata on line dal governo Renzi. Tra i nodi critici, i metodi sulla valutazione degli insegnanti. «È una sanatoria, ma senza soldi. Serve un rilancio ma non si fa con i tagli

Libro dei sogni, riforma senza sostanza, ma è soprattutto “fumoso” il termine più usato dai docenti romani su “La Buona Scuola” il programma di riforma del sistema scolastico presentato dal premier Matteo Renzi. Programma che i docenti delle scuole italiane sono tenuti a valutare attraverso un questionario on line da presentare entro il prossimo 15 novembre; programma che si articola su 12 punti chiave che, a dire di molti professori interpellati, rispecchia decisamente poco la realtà dei fatti della scuola italiana e soprattutto fa capire chiaramente che non ci saranno fondi. In sostanza, una riforma fatta senza che lo Stato metta un solo euro.

«L’elemento fondamentale è di tipo economico – afferma Maria Luisa Zerbino, docente d’italiano e greco al liceo classico Montale -: non c’è investimento, è una sanatoria ma senza soldi. Ad esempio, il primo dei 12 punti parla di un piano straordinario per assumere 150mila docenti a settembre 2015 e chiudere così le graduatorie ad esaurimento. Questa “spinta” arriva in realtà dall’Europa che ha intimato all’Italia una soluzione perché, in sostanza, non possono esistere precari da 20 anni». «Si tratta – incalza Zerbino – di una disfunzionalità del sistema, pena una salatissima multa. In realtà, questi 150mila docenti lavorano già, semplicemente diventerebbero stabili ma non avrebbero cattedre. Questo perché, tra l’altro, dal 2008, la riforma Gelmini ha imposto alla scuola un risparmio di otto miliardi di euro in tre anni. E per risparmiare sono state tagliate le ore di lezione. Ora sono 18 per ogni professore e di conseguenza non c’è continuità. Non hanno continuità i professori di ruolo, che cambiano classe ogni anno all’interno dello stesso istituto, non avrebbero continuità i nuovi assunti, perché la loro funzione sarebbe sostanzialmente quella di “tappare i buchi”, andando ogni giorno anche in una scuola diversa».

Così l’istruzione pubblica perderebbe la sua funzione primaria: «La scuola ha il compito di formare i futuri cittadini, anche dal punto di vista della vita democratica, della solidarietà – dice Loredana Cioffi, docente di italiano e greco al liceo Manara -, su di noi contano le famiglie. Invece, con questa riforma, si caricano i professori di lavoro inutile e si chiede di fornire ai ragazzi solo delle competenze, i famosi skills: se poi apprendono o stanno bene o male, questo alla riforma non interessa, ma la scuola è anche e soprattutto questo».

Ad accendere il dibattito tra i professori sono soprattutto due punti, a cominciare dalla previsione di scatti di carriera ogni tre anni, al suono di 60 euro netti al mese, ma solo per 2 professori su 3, ossia quelli considerati più meritevoli. Ma chi dovrà decidere quali saranno i promossi e i bocciati? «Il dirigente scolastico e un comitato di valutazione, quest’ultimo non ancora molto chiaro, invece che una commissione d’ispettori esterni, perché in Italia sono solo 20 quelli di ruolo – sottolinea Massimo Pieggi, insegnante di religione al liceo Tasso -. Un metodo che non appare neutrale, equo, e che innesta un forte elemento di competizione tra docenti perché è come ammettere che in ogni scuola un terzo di loro non è meritevole. Questo porterebbe alla divisione tra i professori, quando invece è la coesione la forza di un corpo docente di un istituto».

Una soluzione potrebbe esserci, anche perché gli insegnanti non temono la valutazione, anzi: «Ci sono molti insegnanti di 50/60 anni – osserva Andrea Barbetti, docente d’italiano e latino al Montale – che potrebbero essere utilizzati come “tutor” per assistere i loro colleghi più giovani, forti della loro esperienza. Potrebbero essere loro a verificare la didattica, allora sì che i famosi 60 euro li meriterebbero tutti»!

Altro punto “dolente” è il 12, l’unico che parla di fondi: «Attrarre risorse private (singoli, cittadini, fondazioni, imprese), attraverso incentivi fiscali e semplificazioni burocratiche». Fondi privati, quindi, nella scuola pubblica, ma con quali rischi? «Ho lavorato in scuole del Nord, del Centro e del Sud – afferma Loredana Cioffi – e il rischio che si corre nel far entrare privati nella scuola è la disparità. Al Nord imprenditori che investono nella scuola ci sono, al Sud le possibilità sono ridotte al lumicino. Con quale risultato? Che una scuola andrà più avanti di un’altra, che ci saranno istituti di serie A e altri di serie B, a discapito della formazione dei ragazzi. È lo Stato che deve finanziare la scuola, tutte le scuole, e non può esimersi da questo compito o scaricarlo su altri». Anche nella scuola media la visone è la stessa: «L’inserimento di enti privati è in contrasto con il mandato costituzionale – afferma Franca Allegrezza, docente di lettere alla media Montezemolo  -. Con l’ingresso dei privati, quanto sarà garantita la libertà?».

In realtà i docenti una proposta per riformare la scuola l’hanno fatta: si tratta della Lip, Legge d’iniziativa popolare per la scuola della Repubblica, presentata, con oltre centomila firme di insegnanti, il 2 agosto scorso: «Ma non viene presa in considerazione – spiega Cioffi -, eppure il Governo potrebbe almeno confrontarla con “La Buona Scuola” e vedere le differenze».

Un programma dai mille dubbi, quindi, che in un certo senso snatura anche le affermazioni del premier Renzi: «Uno Stato che tiene all’istruzione, investe nell’istruzione – sottolinea Maria Luisa Zerbino -, deve far sentire che il lavoro degli insegnanti è importante, che le famiglie e i loro figli sono importanti. Alla scuola italiana serve una ripresa di dignità e di certo non si fa con i tagli».

13 novembre 2014