La formazione missionaria di Roma riparte da Madre Teresa

Nel corso dell’incontro promosso dal Centro diocesano, il ritratto della santa di Calcutta: «La sobrietà come stile di servizio»

Nel corso dell’incontro promosso dal Centro diocesano, il ritratto della santa di Calcutta: «Sobrietà come stile di servizio». La testimonianza di un parroco romano

Concreta, coinvolgente, totalmente abbandonata alla Divina Provvidenza e profondamente innamorata della Chiesa. Portava Cristo agli uomini per condurre anime a Cristo. Questa era santa Teresa di Calcutta: amava ripetere che l’accoglienza si fa accogliendo, che mettersi al servizio degli ultimi significa mettersi al servizio di Cristo, capace di arrivare con qualche minuto di ritardo ad un appuntamento con il Papa se prima c’era un povero da aiutare. «Il Pontefice è il vicario di Cristo, il povero è Gesù stesso» spiegava.

Il ritratto della Madre, come la chiamano le suore Missionarie della carità da lei fondate, è stato tracciato, sabato 28 gennaio, durante il secondo corso di formazione e informazione missionaria per l’anno pastorale 2016/2017, promosso dal Centro missionario diocesano e dall’Ufficio Migrantes di Roma, rivolto a sacerdoti, animatori e missionari. Tema dell’incontro, svoltosi nel Pontificio Seminario Romano Maggiore e moderato da Federica Cifelli, giornalista di Roma Sette, «Il “metodo” missionario di Madre Teresa di Calcutta».

Aneddoti sulla vita della santa
sono stati raccontati da don Stefano Meloni, parroco a Santa Maria Madre della Misericordia, e da suor Gemma, economa delle congregazioni di Roma. Il sacerdote l’ha conosciuta nel periodo in cui, da giovane, svolgeva quotidianamente servizio di volontariato nelle case delle Missionarie della Carità a Roma. «Ho avuto la fortuna di trascorrere tanto tempo con Madre Teresa» afferma. Tra le peculiarità della missionaria albanese ricorda il totale affidamento alla Divina Provvidenza e le regole della mano destra – «con l’aiuto di Dio sarò Santo» – e della mano sinistra – «You did it to me. Lo avete fatto me» -.

Don Stefano continua a sentirsi un collaboratore delle suore: «Ho imparato tutto da loro e dai poveri. In modo particolare Madre Teresa mi ha insegnato che la sobrietà è lo stile per servire e solo con l’umiltà si attua l’accoglienza dei poveri e degli emarginati»: impegno che don Stefano ha messo in pratica nella sua parrocchia dove ha aperto un centro di accoglienza per 20 persone indigenti. Inoltre Santa Maria Madre della Misericordia confina con uno dei campi nomadi attrezzati della Capitale. «I bambini del campo nomadi sono battezzati e frequentano il catechismo e l’oratorio – sottolinea -. Solo così la comunità si è abituata alle persone con culture diverse, perché le abbiamo accolte».

Suor Gemma ricorda che un giorno uno dei tanti poveri per i quali la santa di Calcutta si prodigava quotidianamente le disse «Tu, madre, sei una di noi». «Lo era diventata esteriormente e interiormente perché condivideva pienamente l’agonia delle persone che assisteva – spiega suor Gemma –. Ripeteva che le suore devono stare il più vicino possibile ai poveri, per toccare il loro cuore». Non ha vissuto la sua missione allo scopo di evangelizzare e convertire con i libri e le catechesi, anzi parlava poco ma agiva molto. «Non dobbiamo dare testimonianza a parole – sottolinea don Stefano – ma con i gesti e i fatti. Madre Teresa era molto concreta».

Suor Gemma ricorda le locuzioni
e le visioni interiori che la Madre ebbe da giovane, alle quali seguì un lungo periodo di aridità spirituale. Ma nonostante questo «non ha mai perso la consapevolezza di essere figlia di Dio» e il suo segreto risiedeva proprio «nella profondità del suo rapporto con Dio che desiderava ricambiare con lo stesso amore». Spendeva la sua vita al servizio di chiunque necessitasse di aiuto, come quando, nel 1988, si recò nell’Armenia colpita dal devastante terremoto che causò 25mila vittime.

Ma non toglieva mai tempo alla preghiera, all’adorazione e ai sacramenti. «Ci ha lasciato la regola della confessione settimanale – racconta suor Gemma -. Solo partecipando quotidianamente alla Messa e accostandosi ai sacramenti si arriva a conoscere veramente Cristo, la Madre ci ripeteva sempre che siamo chiamate a portare Cristo nell’oscurità ma la prima missione inizia nelle nostre vite. Siamo noi le prime persone da evangelizzare e accogliere, riconoscendo le nostre ipocrisie e povertà. Se accogliamo noi stessi possiamo andare dai poveri».

«Per educare all’accoglienza dobbiamo ritrovare una identità – afferma il vescovo Paolo Lojudice, incaricato del Centro missionario diocesano -. La paura del diverso corrisponde all’insicurezza di se stessi. È da qui che si riparte, è la debolezza di noi stessi che ci rende ancora più paurosi».

30 gennaio 2017