Aleppo, il «dramma di un popolo in agonia»

Il parroco latino Ibrahim Alsabagh racconta la vita «dentro l’apocalisse» nella seconda città della Siria, nel cuore di una carneficina che dura da 5 anni

Il parroco latino padre Ibrahim Alsabagh racconta la vita «dentro l’apocalisse» nella seconda città della Siria. «Fame e sete non hanno nomi diversi a seconda delle religioni»

«Vivo dentro l’apocalisse. Il problema è che se si va avanti così tutto il mondo diventerà Aleppo». Padre Ibrahim Alsabagh, parroco della chiesa latina della seconda città della Siria, è testimone diretto della carneficina che si sta perpetrando in Siria da cinque anni. In questi giorni è a Roma, per raccogliere aiuti, ringraziare quanti sostengono gli sforzi umanitari e rilanciare l’appello per la pace. Oggi, venerdì 28 ottobre, alle 21 nella chiesa di S. Francesco a Ripa racconterà la sua esperienza, insieme al custode di Terra Santa padre Patton. Esperienza che ha raccolto in un libro, “Un istante prima dell’alba”: una raccolta di lettere, testimonianze, interviste.

«Il senso del titolo è che siamo nel buio, nelle tenebre ma non abbiamo perso la speranza di vedere la luce», spiega il frate francescano. Anche raggiungere l’Italia è stata un’avventura: «Sabato è finita la fragile tregua e sono caduti 20 missili sulla zona ovest di Aleppo», quella controllata dalle forze governative, dove si trova la parrocchia. «Non sapevo se domenica, il giorno fissato per la mia partenza, sarei riuscito a lasciare la città», confida padre Ibrahim. Alla fine ce l’ha fatta. Il quadro che disegna è tremendo: «Non ci sono le condizioni minime di vita – spiega -: da tre anni siamo senza elettricità, l’80% delle persone è senza lavoro, il 92% delle famiglie è sotto la soglia di povertà». Prima della guerra ad Aleppo vivevano 4 milioni di persone, ora ne sono rimaste 200mila  nella parte orientale in mano ai miliziani e 1,2 milioni in quella occidentale. «Mancano medici, infermieri, medicine – continua padre Ibrahim – ma la cosa peggiore è vivere sotto il tiro continuo di bombe e missili che cadono ovunque». Anche sui bambini che vanno a scuola, «al punto che i genitori si chiedono se vale ancora la pena mandarceli. È il dramma di un popolo in agonia».

Chi ha potuto (i più ricchi) è fuggito. Ma chi è rimasto lo ha fatto per scelta o perché non può andarsene? «Entrambe le cose – risponde -. Qualcuno dice che almeno lì ha un posto nel cimitero se dovesse morire. Chi ha una casa o un negozio, anche se lavora poco, pensa di restare perché spera che dopo cinque anni arrivi una soluzione. Gli altri sono i più poveri, quelli che non possono nemmeno pagarsi un biglietto dell’autobus per allontanarsi. Ma ci sono anche famiglie cristiane che pensano che la loro missione sia quella di offrire a un tessuto sociale lacerato la testimonianza di un Dio di pace, di solidarietà, di giustizia, testimoniando la risurrezione di Cristo in una società morta». Una testimonianza concreta e fruttuosa: «La sofferenza non è una scusa per chiuderci nell’egoismo. È un’occasione per purificarci, per arrivare ad altri, per pregare anche per chi getta i missili e per chi non è cristiano: la fame e la sete non hanno nomi diversi a seconda delle religioni».

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Ecco allora che in due anni, da quando padre Alsabagh è ad Aleppo, sono 23 i progetti messi in atto: dai pacchi alimentari distribuiti ogni mese a famiglie che spesso vivono solo con quel cibo al pagamento dell’elettricità – «da due ampere che costa carissima, perché
arriva da generatori» -; dalla distribuzione di acqua dei quattro pozzi realizzati nella parrocchia di S. Francesco ai piani alti dei palazzi, dove non arriva mai, fino alla ricostruzione, sia pure parziale, delle case colpite dalle bombe. «Può sembrare strano –
spiega il religioso – ma si tratta di persone che non hanno alternative: dormire per strada o tra le macerie delle proprie abitazioni. Ne abbiamo riparate 130». Con tanti volontari, perché la carità «è contagiosa. E devo dire grazie – conclude padre Ibrahim – alla generosità di tanti italiani. Alcuni (infermieri, insegnanti) si sono perfino messi a disposizione per venire ad aiutarci. Altri danno quello che possono». Come una signora che ascoltando le richieste del suo parroco si è presentata con un contenitore di plastica in cui aveva messo tutti i suoi oggetti d’oro per aiutare chi, tra bombe e missili, spesso non ha neppure un pezzo di pane.

28 ottobre 2016