Scifoni: i miti greci, la famiglia e la fede

L’attore si racconta tra nuovi progetti di lavoro ed esperienza religiosa. L’importanza dei sacerdoti e dell’8xmille. «Senza parrocchia sarei sradicato»

«Papà, mi aiuti a passare il livello?». Succede anche questo – un figlio alle prese con i videogiochi – durante l’intervista a Giovanni Scifoni, attore, scrittore, drammaturgo, regista e conduttore televisivo romano, sposato dal 2005 con Elisabetta, conosciuta in parrocchia, con cui ha messo su una famiglia con tre figli – Tommaso di 15 anni, Cecilia di 12 e Marco di 8 – ormai nota anche al pubblico di RaiPlay. Insieme, infatti, sono stati protagonisti de “La mia jungla”, la sua prima opera fiction televisiva da autore, regista e interprete: un format originale con cui ha raccontato il caos di una famiglia in un piccolo appartamento alle prese con la quarantena, tra storie e situazioni paradossali ma molto concrete, dallo smartworking alle vacanze, dalla Dad al rientro al lavoro, vincitore del prestigioso premio internazionale Prix Italia 2020 come Best Web Fiction.

Incursioni familiari c’erano già state con le sue esilaranti pillole sul Santo del giorno, clip monografiche per attualizzare le vite dei santi e innescare riflessioni di vario genere, proposte on line sui suoi canali social, che hanno prodotto migliaia di visualizzazioni sul web, fino ad approdare su Tv2000 nel programma “Beati voi” di Alessandro Sortino, che ha anche condotto nel 2017. Dopo averlo visto  su RaiUno con il camice del dottor Enrico Sandri, il neuropsichiatra amico del medico “smemorato” Luca Argentero nella fiction di grande successo “Doc – Nelle tue mani”, e dopo l’impegno sul set in Romania con una grande produzione Bbc di cui non può svelare ancora dettagli, la famiglia torna ora il perno di una nuova avventura professionale: “Miti, eroi e merendine”, il podcast scaricabile da Rtl.it e Spotify, scritto con Christian Raimo e prodotto da Luca Bernabei per Lux Vide, che racconta in maniera inusuale i miti greci prendendo spunto, ancora una volta, dal delirio quotidiano in famiglia.

«La famiglia non è mai scontata, offre sempre nuovi spunti – rivela -. È un delirio con cui devi fare i conti». Guizzi creativi, idee e certezze che per l’attore sono frutto di un profondo cammino di fede.  «Vengo da una famiglia neocatecumenale, la mia parrocchia, da sempre, è quella dei Martiri Canadesi al Nomentano. Ho ereditato questo dono dai miei genitori e tutt’ora faccio parte della comunità ma non sono mancati dubbi e crisi durante l’adolescenza. La scelta di proseguire è stata una conquista lenta, a un certo punto nun me piaceva più per niente – confessa con un intercalare romanesco -. Poi ho incontrato mia moglie, anche lei del Cammino e anche lei in crisi, ma insieme queste crisi sono diventate ricerca ed eccoci qui».

Conoscenza delle Scritture ed esperienza di condivisione con i fratelli sono le caratteristiche del Cammino che «mi tengono attaccato a questa esperienza», ammette Scifoni, che non nasconde le difficoltà di questa scelta ma che non saprebbe rinunciare al piacere della scoperta continua della Parola. «Tutte le settimane ti confronti con le Scritture, ci entri dentro, le svisceri e vedi che c’entrano con la tua vita. Altre volte, quando pensi che non c’entrano niente arriva la consapevolezza che stanno parlando a te». Una conoscenza profonda che ha segnato anche il suo esordio autorale in teatro. «Per tanti anni ho fatto la vita dello scritturato, facevo quello che mi chiedevano di fare, ma il mio sogno era portare il mio mondo, quello che io ero, sul palcoscenico, avere una mia cifra stilistica e non riuscivo a capire quale fosse. Poi ho capito che era il mio cammino di fede, la cosa si cui avevo sbattuto tante volte la testa, che mi aveva provocato tante crisi. E non potevo non portare sul palco tanto amore e tanto odio».

Ecco allora spettacoli come “Le ultime sette parole di Cristo”, “Guai a voi ricchi”, “Santo piacere”, premiati più volte a “Teatri del sacro”, portati in tournée in tutta Italia. La scintilla è arrivata dopo una celebrazione di don Fabio Rosini, direttore del Servizio diocesano per le vocazioni a Roma, sulle ultime parole di Cristo. «Una sera, per questa celebrazione, ci ha portato in una chiesa buia e mi è sembrato di stare in teatro nel suo significato originale come lo concepivano i greci, per i quali il teatro era un rito, a differenza dei romani per cui era “ludus”, un intrattenimento, tant’è che i greci preferivano le tragedie e i romani le commedie, come diceva con orgoglio anche Quintiliano con il famoso motto “Satura quidem tota nostra est”, “Certamente tutta nostra è la satira”. Io mi sento più vicino ai greci. Il teatro è un rito, è una cosa molto seria, non può esserci finzione, è più finto il mondo fuori del teatro! I personaggi sono inventati, certo, quella è la finzione scenica, ma il modo di raccontare le cose al pubblico, quello che tu sei sul palcoscenico, è autentico».

Per Scifoni, dunque, che ben distingue la figura di sacerdoti e catechisti da quella degli attori, l’elemento in comune è chiamare il popolo a celebrare un rito tutti insieme. «È quello che sta mancando durante la pandemia con la chiusura dei teatri, ed è il motivo per cui le Messe on line sono un ripiego, meglio di niente, perché la Messa è un sacrificio che va celebrato insieme». Da don Marius, il sacerdote polacco che con un’affermazione disarmante lo ha convinto a sposarsi («Ma Elisabetta ti piace? Perché a me stare in parrocchia mi piace») a don Andrea Cavallini (direttore dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma), che ammette di tormentare spesso al telefono, da don Michele Lunetti, amico d’infanzia con cui è cresciuto, a don Antonio Pizzonia, dehoniano che lo ha fatto innamorare «della cultura ebraica e della soppressata calabrese», fino all’ammirazione per la scelta del diaconato dello zio Luigi Bencetti, diacono permanente missionario in Perù, alla domanda sui sacerdoti di riferimento della sua vita Scifoni è un fiume in piena di gratitudine.

«Non dobbiamo fare l’errore di scambiare i preti per psicologi e le parrocchie per supermercati dove andiamo in base alle offerte, come dice bene don Fabio Pieroni. C’è la tendenza a voler andare in parrocchia per prendere la dose di conforto e benessere spirituale settimanale. Dobbiamo tornare a capire che la parrocchia è un luogo dove si fa comunità. Io senza parrocchia mi sentirei sradicato. Io sono parrocchia, io sono Chiesa e devo collaborare come posso con il parroco per la costruzione della comunità». Da qui anche l’importanza di sostenere la Chiesa cattolica con la firma dell’8xmille. «Proprio per questo motivo quello che mi piace dell’8xmille è il concetto di sussidiarietà. Tutto quello che va all’8xmille è un grande peso che togliamo alla società, un investimento che facciamo. La Chiesa fa un aiuto impressionante allo Stato, alle persone, alla comunità, in termini spirituali ma anche pratici, pensiamo alle tante iniziative di volontariato. Non ho alcun dubbio sull’efficacia dell’8xmille e non voglio dire che si tratta di soldi ben spesi, perché lo concepisco come qualcosa che esula dal discorso economico, perché fa parte della mia vita nella misura in cui io mi sento parte della comunità. Certo, come in una famiglia, i soldi servono, ma se con mia moglie discutessimo se fare la spesa con i soldi del mio conto o del suo, significherebbe che c’è qualcosa che non va nella nostra comunione. Allo stesso modo dovrebbe essere in una vera comunità parrocchiale».

Per Scifoni «sarebbe fantastico se tutte le parrocchie tornassero a essere dei pilastri del quartiere, come in alcuni posti in giro per l’Italia dove sono stato invitato per lavoro, in cui se non ci fosse l’offerta culturale proposta dalla parrocchia, oltre a quella spirituale, crollerebbe tutto il Paese». Il suo messaggio è chiaro: «Venite a vedere! Venite a rendervi conto quanto ciascuno può essere importante per la costruzione della comunità parrocchiale e poi dopo firmate per l’8xmille alla Chiesa cattolica».

25 gennaio 2021