Scuola, il “maestro” e la possibilità del pensiero critico

Riflessioni sull’importanza della generatività culturale a partire da un apologo manzoniano nel trattato sul romanzo storico. L’importanza di mostrare il posizionamento problematico

Ieri, mentre sfogliavo senza impegno la raccolta appena uscita dei saggi pasoliniani di Walter Siti (Quindici riprese, Rizzoli), ho ritrovato un celebre apologo manzoniano contenuto nel trattato sul romanzo storico del 1850. Vale la pena riportarlo per intero. «Un mio amico, di cara e onorata memoria, raccontava una scena curiosa, alla quale era stato presente in casa d’un giudice di pace in Milano, molti anni fa. L’aveva trovato tra due litiganti, uno dei quali perorava caldamente la sua causa, e quando costui ebbe finito, il giudice gli disse: “Avete ragione”. “Ma, signor giudice,” disse subito l’altro, “lei deve sentire anche me, prima di decidere”. “È troppo giusto”, rispose il giudice: “Dite, che v’ascolto attentamente”. Allora quello si mise con tanto più impegno a far valere la sua causa; e ci riuscì così bene, che il giudice gli disse: “Avete ragione anche voi”. C’era lì accanto un suo bambino di sette o ott’anni, il quale, giocando pian piano con non so qual balocco, non aveva lasciato di stare anche attento al contradittorio, e a quel punto, alzando un visino stupefatto, non senza un certo che d’autorevole, esclamò: “Ma babbo! non può essere che abbiano ragione tutt’e due”. “Hai ragione anche tu”, gli disse il giudice».

Si tratta di una storiella, come scrive Siti, «deliziosa», che dice molto della personalità dello stesso Manzoni ma forse anche di noi. Per deformazione, ho iniziato a riflettere su cosa c’entrasse con la scuola, ma in generale con ogni relazione educativa, così mi sono domandato chi fossero i personaggi rappresentati, ovvero il giudice, i due litiganti, infine il «bambino di sette o ott’anni». Il giudice, facile, potrebbe senz’altro essere il buon insegnante. Ma questo non tanto per il ruolo di padrone di casa, che l’insegnante non è padrone di nessuna casa o al massimo coinquilino di una casa – la scuola – che è di tutti, quanto per la capacità di ascoltare attentamente i due litiganti, di farli esprimere così compiutamente da riconoscere a entrambi la possibilità della propria ragione parziale.  In virtù di ciò, m’è parso che lo specifico dei due litiganti, più che nella loro identità, sia da rimarcare in ciò che portano: la «causa», il punto di vista, l’idea che rappresentano, e che si fa sostanza – mutuando l’espressione di un maestro – in quel «conflitto delle interpretazioni» che è il terreno fertile di ogni percorso formativo vero.

E il bambino? È ovviamente e semplicemente l’alunno? Potrebbe, certo, ma c’è un dettaglio che non andrebbe trascurato, ovvero che quello non è un bambino qualunque ma è il figlio del giudice. A riguardo mi verrebbe da sperticarmi su quanto questa idea, quella di generatività culturale, della maieutica, di Brunetto Latini che chiama Dante «figliuol mio», checché se ne dica resti cruciale. Ma più di questo, a me pare che quel bambino, così in grado di sollevare candidamente, ma anche «non senza un certo che d’autorevole», la contraddizione apparente delle ragioni, sia compiutamente figlio, discepolo, alunno, proprio perché ha avuto in sorte la fortuna di un maestro che sa mostrargli la possibilità dell’affrontamento complesso, del posizionamento problematico, in definitiva del pensiero critico.

7 aprile 2022