Professore, siamo di fronte a lupi solitari o ad una strategia pianificata?
No, non sono lupi solitari. È una strategia reticolare. A differenza della generazione precedente di al Qaeda, il jihad di terza generazione parte dal basso e non dall’alto. È uno jihadismo che considera come suo bersaglio l’Europa come il ventre molle dell’Occidente e tenta di utilizzare una parte della gioventù musulmana europea, quella non integrata nelle società europee. Il loro bersaglio è di fratturare le società europee dal di dentro. Da una parte una popolazione musulmana che vogliono ristrutturare come comunità chiusa all’altro, che considera l’altro come empio e come apostata. Dall’altro lato una destra estrema in crescita, una destra xenofoba che considera i musulmani come non europei. Questo, mi sembra, è il nostro pericolo principale nelle società europee. No, non sono lupi solitari, sono organizzati in modo reticolare, non c’è gerarchia. Funzionano attraverso le reti sociali, messaggi, Facebook, Twitter. Si muovono sotto i radar dei servizi segreti. Ma nello stesso tempo non sono perfettamente organizzati e strutturati.

Il 15 gennaio si celebra la Giornata mondiale delle migrazioni. C’è equazione tra migrazioni e terrorismo?
No, perché non tutti i migranti sono terroristi e tutti i terroristi non sono migranti. Ma il problema credo sia un altro e cioè che affrontiamo due sfide nello stesso tempo. Abbiamo la sfida della migrazione con migliaia e migliaia di poveri migranti che fuggono dai loro Paesi, perché lì non c’è più possibilità di vivere. In Siria ad esempio, a causa dei bombardamenti, del crollo delle case, della violenza. Ma al contempo l’Europa non ha più capacità di accogliere questi migranti anche se loro pensano che questa possibilità ci sia. Anche un Paese come la Germania, con la sua potenza economica e la sua politica di educazione per i migranti, ha difficoltà terribili. La stessa cancelliera Merkel ha problemi per la sua rielezione perché la presenza tra i migranti di una minoranza di terroristi e malviventi ha provocato la crescita di partiti della destra estrema.

La morte di padre Hamel a Rouen. E poi le stragi di Nizza e Berlino. È normale che la paura cresca in Europa. I populismi danno le loro risposte. Ma come si vince veramente la paura?
È una domanda difficile, se conoscessimo la risposta vinceremmo tutte le elezioni. L’accoglienza non si può fare se non c’è la possibilità economica di lavorare e questo è un vero problema. Bisogna sicuramente risolvere la questione umanitaria e cioè salvare questi poveri migranti che rischiano di morire nel mare, ma poi quando arrivano sulla terraferma tentano di raggiungere l’Europa del Nord. Abbiamo in Francia il problema di Calais. Allora credo che fermare l’immigrazione in mare sia una necessità umanitaria, l’altra è trovare le possibilità di lavorare per questi migranti. E questo è lo sforzo che sta facendo la Germania ma i risultati non si vedranno prima di un paio d’anni. Nel frattempo credo che la situazione sarà molto difficile soprattutto se aumenta il fenomeno del terrorismo. L’attentato di Berlino da questo punto di vista rappresenta una sfida importante.

Lei è stato ospite di un Forum qui a Parigi dove sul tema del terrorismo stanno discutendo cattolici e ortodossi d’Europa. Quale ruolo possono giocare le Chiese cristiane?
Le Chiese cristiane sono un bersaglio del terrorismo. E questa è una cosa che cambia tutto. Credo che in Francia l’assassinio di padre Hamel è stato un trauma non solo per i cattolici ma per tutta la società. Assistiamo a quello che possiamo definire come un sentimento di ritorno di una identità cristiana. Ne è in qualche modo un segno anche la vittoria di Fillon alle primarie delle destra francese. Due giorni fa Fillon si è definito cristiano ed è la prima volta che un candidato alla presidenza francese si è sentito in dovere di farlo. Questo probabilmente cambia la situazione.

Creare ponti. È una delle prerogative del mondo ecumenico?
Sì, costruire ponti è importante. Ma il ponte non è un oggetto per se stesso. Il ponte parte da un punto per arrivare ad un altro. Certo il ponte consente il transito, di non cadere e morire nel fiume, ma la questione è definire il punto di arrivo. Se la Chiesa è pronta ad aiutare i migranti, è una bella cosa. Ma per andare dove, verso quale destino? C’è un problema di realtà. (M. Chiara Biagioni)