I romanzi di Willy Vlautin, efficace ritratto della provincia Usa

Nelle sue pagine un dettato che segue passo passo gli eventi, come una telecamera sulle spalle del cameramen, mischiando vittoria e sconfitta: due facce della stessa medaglia

I romanzi di Willy Vlautin, nato a Reno, in Nevada, nel 1967, sono oggetti contundenti: possono far male da quanto ti prendono. La loro natura più autentica è quella vitalistica, nel solco profondo della letteratura americana. Il piccolo editore romano Jimenez li sta meritoriamente presentando al pubblico italiano nelle traduzioni di Gianluca Testani. Se ami gli artisti che gettano luci sghembe sul vecchio sogno a stelle e strisce, come fai a staccarti dalle storie di questo scrittore, perfino musicista di ottimo livello, leader dei Richmond Fontaine e membro dei Delines? Con il suo dettato percussivo, che segue passo passo gli eventi, quasi fosse una telecamera sulle spalle del cameramen, è capace di mischiare vittoria e sconfitta, al punto che dopo un po’ danno l’impressione di essere entrambe due facce della stessa medaglia.

Al tempo di Donald Trump, queste pagine aspre e delicate al tempo stesso, dolci e disperate, potrebbero rappresentare un buon antidoto contro ogni delirio di onnipotenza. Dove sembra che tutto si perda, Vlautin, con mossa improvvisa, scopre una letizia inaspettata. È così in The free (pp. 251, 18 euro), pubblicato nel 2014, ma solo adesso stampato nella nostra lingua, ambientato in una casafamiglia per disabili nelle cui stanze Leroy Kervin, giovane reduce, cerca inutilmente di scacciare via gli incubi della guerra in Iraq, insieme alla piccola Jo, adolescente smarrita senza punti di riferimento. Ma era così anche in Io sarò qualcuno (pp.255, 18 euro), uscito lo scorso anno, che resta finora il capolavoro di Vlautin, indimenticabile ritratto di Horace, ragazzo mezzo indiano e mezzo irlandese abbandonato dai genitori, cresciuto in un ranch nel deserto del Nevada, col desiderio di poter diventare un campione di pugilato.

L’atmosfera del romanzo, fra incontri di boxe organizzati al confine tra Messico e Stati Uniti, lavori occasionali, impossibili glorie, amori da un giorno solo, riporta alla mente il leggendario film di John Huston: Fat City, targato 1972, forse l’interpretazione più intensa di Jeff Bridges. Due sono gli elementi di maggior fascino presenti nello stile di Vlautin: l’ambientazione della provincia americana, col suo mondo chiuso di motel e ristoranti staccati dal centro, pur nella vastità del paesaggio circostante, e l’importanza tematica attribuita ai soccorritori. In The free spiccano i personaggi di Freddie e Pauline, rispettivamente custodi e infermiera nella struttura di accoglienza. In Io sarò qualcuno emerge la famiglia adottiva di Horace, i coniugi Reese: indimenticabile resta il finale del libro, quando il vecchio tutore raccoglie nella periferia di Las Vegas il pugile fallito, sul punto di trasformarsi in un barbone, e con un lungo discorso cerca di convincerlo a tornare indietro. Fra l’altro, nel tentativo di accrescere la sua autostima, gli dice: «Puoi prendere il meglio di ogni parte di te».

In fondo il signor Reese, quando parla così, si rivolge anche a se stesso. Sia lui, sia Pauline, non sono santi: anzi, devono risolvere problemi non lontani da quelli dei loro protetti. La cosa più interessante è questa: chi aiuta gli altri è come se volesse curare le proprie ferite. Un individuo pienamente risolto, con ogni probabilità, non troverebbe la motivazione sufficiente per guardare a un metro dal giardino in cui abita. E questo dovrebbe spingere ognuno di noi a entrare in azione.

9 marzo 2020