Padre Baggio: «L’apertura all’altro, formula di vita»

Il sottosegretario del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano: gli appelli del Papa ad accoglienza e integrazione, rivolti a tutti gli abitanti delle “periferie”

Tra i relatori dell’incontro di ieri, 15 novembre, dedicato dalla diocesi di Roma all’enciclica di Papa Francesco “Fratelli Tutti”, c’era anche padre Fabio Baggio, scalabriniano, sottosegretario della Sezione Migranti e rifugiati del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, che ha parlato de “Le sfide odierne della comunità ecclesiale”.

Padre Baggio, è noto quanto stia a cuore la questione dei migranti a Francesco. Un tema che si sviluppa in particolare nel quarto capitolo dell’enciclica. Il Papa rilancia i verbi accogliere, proteggere, promuovere, integrare. La comunità ecclesiale come è chiamata a rispondere a questo invito?
Il Santo Padre, fin dall’inizio del suo pontificato con la visita a Lampedusa, ha manifestato la sua particolare attenzione verso migranti e rifugiati. Li ha inseriti all’interno della sua grande preoccupazione per quanti abitano le periferie esistenziali. Ogni volta che si è rivolto alle nostre comunità ecclesiali, e lo ha fatto ripetutamente, chiedendo un’attenzione particolare per mettere al centro gli ultimi, lo ha fatto manifestando questa attenzione a tutte le categorie vulnerabili, tra i quali ci sono anche i migranti. Ogni appello deve essere quindi inteso come inclusivo di queste categorie. Ma allo stesso modo, gli appelli ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare devono essere intesi come rivolti a tutti gli abitanti delle periferie esistenziali. Non si tratta solo dei migranti ma di tutte quelle persone che sono ai margini della società, dei quali i migranti sono membri in modo particolare perché non facendo parte di un gruppo di appartenenza sono ai margini dei margini. L’azione nei loro confronti è un’azione di promozione che interpella in modo particolare tutte le nostre comunità ecclesiali.

Il Papa si sofferma sul concetto di cittadinanza, un aspetto fondamentale dell’integrazione. Ritiene che si stia facendo abbastanza in questa direzione?
È interessante notare come il Santo Padre preferisca il concetto di cittadinanza piena piuttosto che quello di minoranza. Questo va letto nei confronti di tutte le minoranze all’interno della nostra struttura sociale. Mi spiego: non bisogna soffermarsi a individuare gruppi e “categorizzare” quelli che sono esclusi cercando di “regalare” loro qualcosa ma di includere tutti in una cittadinanza piena che oserei chiamare cittadinanza attiva. Che è fatta di appartenenza, ovvero sento di appartenere a questo gruppo di persone perché risiedo in questo territorio e vi appartengo in toto, non a pezzi; di partecipazione, perché posso dare qualcosa di me stesso, per crescere insieme; e di responsabilità: sentirsi responsabile dello sviluppo di tutti, senza escludere nessuno. Questo concetto va poi declinato nelle varie espressioni sociali ma anche politiche, nel senso di gestione del bene comune.

Al di là delle questioni materiali, per i migranti cultura e fede sono aspetti importanti che però spesso rischiano di essere trascurati. Come è possibile aiutarli a integrarsi senza perdere le proprie radici?
È uno dei percorsi difficili che ci si presentano quando parliamo della cultura dell’incontro. In questo la “Fratelli tutti” è esplicita: l’apertura all’altro non è un’opzione per il cristiano ma una formula di vita perché nell’altro incontro Gesù. Ma questo non può far dimenticare che c’è la gestione di uno spazio: ognuno ne cede un po’ per incontrare l’altro. È un’opportunità che si sfrutta cominciando a cedere qualcosa che noi sentiamo particolarmente nostro ma che di fatto diventa negoziabile, come lo sono tanti elementi della nostra cultura che spesso vengono presentati come non negoziabili mentre di fatto non lo sono. Gli stessi concetti di identità e di cultura sono dinamici, noi siamo cresciuti e continuiamo a crescere nella nostra identità attraverso l’incontro con l’altro, anche come gruppo: pensiamo all’Italia e alla presenza di quanti popoli hanno forgiato quella che oggi definiamo italianità. È un processo che non si fermerà mai.

Allo stesso tempo, non c’è il rischio per chi ospita di vedere “annacquata” la propria identità cristiana?
È una preoccupazione alquanto diffusa ai nostri giorni, dovuta soprattutto all’arrivo massiccio di persone di religione diversa. Io vorrei proporre una chiave di lettura diversa. Succede un po’ come quando la nostra fede viene messa alla prova, quando un rappresentante di un’altra religione ci chiede conto della nostra fede e ci troviamo in difficoltà. E noi chiudiamo la porta perché abbiamo paura, perché sentiamo di mancare di alcuni elementi della nostra fede. L’incontro con l’altro richiede che entrambi gli interlocutori siano sicuri di quello che credono. Il dialogo interreligioso presuppone la convinzione delle verità della mia fede. Solo una fede debole viene messa in discussione. Poi in prospettiva missionaria penso questo: tante volte siamo partiti per annunciare il Vangelo da un continente all’altro e oggi che ci viene offerta questa opportunità di testimoniare Gesù con la vita vissuta di fronte a quanti arrivano senza averlo mai conosciuto, o conosciuto in maniera distorta, perché dobbiamo perderla?

16 novembre 2020